Intervento di Fabiano Barbisan. Conosciamo la marca delle scarpe che indossiamo ma quando al ristorante ordiniamo una bistecca non sappiamo da dove arriva, chi l’ha prodotta e come sono stati alimentati gli animali. Tutto ciò non accade in Francia dove dal 2002 un decreto prevede che i ristoratori comunichino ai clienti il paese di nascita, il nome dell’allevamento e altri dettagli sulla macellazione.
Però la ciliegina sulla torta della disinformazione verso i consumatori spetta alle Commissioni Agricoltura e Sanità dall’Europarlamento che, con il Reg. 653/2014, hanno soppresso tre articoli della legge 1760/2000 in cui si normavano le informazioni facoltative da inserire sulle etichette della carne bovina, commercializzata in macellerie e supermercati (grazie anche al voto di otto parlamentari italiani).
La storia dell’etichettatura facoltativa prende il via all’inizio del 2000 quando scoppia la vicenda della “mucca pazza” e i consumatori, disorientati da trasmissioni e notizie sensazionali, smettono di acquistare carne bovina. L’Europa corre ai ripari e vara il Regolamento n. 1760 prevedendo due livelli d’informazione: il primo, obbligatorio con l’indicazione dei Paesi di nascita, allevamento, macellazione del bovino. Il secondo è facoltativo e riguarda una serie di informazioni aggiuntive controllate da Organismi terzi definite da disciplinari di etichettatura approvati dal Ministero delle politiche agricole. Il mercato riprende fiato e il sistema della tracciabilità dell’intera filiera (mangimificio, allevamento, macello, sezionamento, punti vendita), viene anche utilizzato dall’Italia per dare un premio agli allevatori che utilizzano l’etichettatura facoltativa.
Si arriva così al 2010 quando la Commissione affida ad un gruppo di studio la tracciabilità dei bovini e gli effetti dell’etichettatura facoltativa. Il “gruppo” propone di introdurre la tracciabilità elettronica sostituendo carta e penna con microchip e software, dimenticando che senza il prelievo contestuale del DNA (operazione semplicissima) la sicurezza alimentare vacilla molto. A fianco di questa nuove iniziative si propone anche di abolire l’etichettatura facoltativa, con l’accordo dei paesi del Nord, buoni esportatori di carne bovina verso l’Italia e poco inclini a fornire informazioni ai consumatori.
Dopo tre anni di battaglie condotte dalle associazioni dei produttori italiani e da alcune organizzazioni sindacali, si riesce a mantenere la possibilità di utilizzare un’etichettatura facoltativa “verificabile, oggettiva e non ingannevole”. Ma servono norme applicative, e la Commissione ha 5 anni per emanarle. E nel frattempo? Ogni paese si arrangerà a inventare proprie certificazioni, compreso il dover stabilire le sanzioni, nel caso non ci sia corrispondenza tra informazioni in etichetta e le caratteristiche della carne.
Che senso ha tutto ciò? Perché sopprimere un sistema che ha funzionato? Perché togliere al consumatore la possibilità di ottenere informazioni certificate? Il problema ci riguarda da vicino visto che importiamo il 50% della carne bovina all’estero. La gente che compra deve essere messa in condizione di poter scegliere cosa acquistare e, più informazioni riceve, maggiore è la consapevolezza. Ora la partita è focalizzata sul fronte interno, visto che il Ministero delle politiche agricole italiano ha predisposto un Decreto Ministeriale per ripristinare l’etichettatura facoltativa con il riconoscimento automatico di tutti i disciplinari già approvati nel passato. Possiamo solo sperare che alla data di scadenza della “vecchia etichettatura facoltativa”, il 13 dicembre 2014, entri in vigore il nuovo Decreto.
Fabiano Barbisan, presidente del Consorzio Italia Zootecnica, struttura che riunisce le maggiori associazioni di produttori di carne bovina del Piemonte, Lombardia, Veneto, Friuli, Marche e Sicilia.
Il Fatto alimentare – 27 novembre 2014