Alimentare. Bauli rilancerà Bistefani per conquistare il Nord-Ovest
L’obiettivo del gruppo Buali-Bistefani è di 500 milioni di ricavi. Il presidente Alberto Bauli: nel 2013 aumenteremo le vendite grazie ai nuovi marchi krumiri, Buondì e Girella
Nel successo di Bauli, industria dolciaria che conta di sfiorare i 500 milioni di fatturato a fine 2013, c’è uno speciale lievito-madre che aggiunge alla forza concreta dei numeri un fascino energetico di epoca pionieristica. Bauli ha una storia da raccontare, una storia che comincia da immagini in bianco e nero, scattate all’inizio del secolo scorso. Lo scenario è quello del Veneto laborioso, che si stringe attorno a Verona. Qui, nel 1922, Ruggero Bauli apre un laboratorio di pasticceria. Comincia a fare il pandoro, togliendo uvetta e canditi al panettone che il milanese Angelo Motta aveva portato al successo con l’invenzione geniale dello stampo chiamato “pirottino” per favorirne l’elevazione verticale.
Con un viaggio avventuroso, e un approdo rocambolesco, dopo l’incidente del piroscafo Principessa Mafalda su cui viaggiava, Ruggero Bauli arriva in Argentina dove continua a fare il pasticcere. Torna a Verona negli anni Trenta e prosegue la sua mission: impastare e lievitare, con una attenzione rigorosa per la qualità. Il cambio di pagina è del 1952. Il ricordo di Alberto Bauli, oggi presidente del gruppo in cui operano anche i fratelli Adriano e Carlo, è legato a una Fiat Giardinetta verde: «Su quell’auto entrammo in un’area di 500 metri quadrati che, allora, ci parve una cosa grandiosa». Laboratorio e bottega sotto, abitazione al piano di sopra.
Alberto Bauli, qual è stata la ricetta che vi ha proiettato nell’industria?
«La capacità di coniugare la sapienza delle ricette artigianali all’alta tecnologia, tenendo sempre acceso il faro della qualità».
Quanto incide l’investimento tecnologico su un bilancio?
«Fino a un po’ di anni fa il rapporto era di uno a dieci, oggi è di uno a uno. La tecnologia evolve in fretta e costa, ma è fondamentale essere aggiornati per garantire standard di qualità inarrivabili per una produzione di tipo artigianale. Qualità di prodotto e qualità organizzativa in ogni settore, dalla ricerca al marketing, alla professionalità degli uomini».
Nonostante la crisi e il forte calo generalizzato dei consumi, Bauli cresce. Il gruppo veronese punta anche sul Nord Ovest con la recente acquisizione del gruppo Buondì Bistefani, fondato da un’altra storica famiglia del settore dolciario, i Viale, a Villanova, alle porte di Casale.
«Con Alberto Viale, che ne è stato il presidente, c’è un lungo rapporto di amicizia e di stima. E in Bistefani abbiamo trovato prodotti di qualità in linea con la nostra impostazione. Meritano di essere più conosciuti, meglio distribuiti e, quindi, di incentivarne la produzione».
Insomma, Bauli mette a disposizione la propria rete commerciale ben strutturata e capillare.
«Sì, ma non è tutto. Intendiamo investire in Bistefani una ventina di milioni per potenziare l’attività, come abbiamo già fatto nelle altre aziende acquisite in precedenza».
Investire in un momento così difficile, in cui molti imprenditori stanno a vedere quel che accade nel mondo…
«E’ indispensabile per portare le fabbriche al livello di competitività. Il mercato oggi è il mondo. Va superato il cliché secondo cui ‘piccolo è bello’: spesso non è più così».
Se si rimane piccoli, si sta fuori; quindi è impossibile fermarsi.
«O si sviluppa o si muore. L’azienda è una tigre che cavalchi: se smonti ti mangia. Certo, la crisi fa paura, ma finirà. Il nostro, comunque, è un rischio calcolato che non mette a repentaglio l’azienda».
Acquisizioni e investimenti degli ultimi decenni hanno fatto diventare Bauli uno dei maggiori poli dolciari italiani: numero uno per i prodotti da ricorrenza natalizi e pasquali, numero due, dopo Ferrero, per le uova di cioccolato, terzo posto per la croissanteria.
«Lavoriamo in cinque stabilimenti: a Castel d’Azzano (quartier generale del gruppo, ndr) e a San Martino Buon Albergo, vicino a Verona, a Orsago di Treviso, a Romanengo di Crema e, ora, Villanova Monferrato. Abbiamo una quindicina di marchi; oltre Bauli, Doria con Bucaneve e Doriano, Casalini per i croissant. E andremo a integrare con i nuovi brand: krumiri Bistefani, Buondì, Jojo, Girella…».
Un’espansione continua….
«C’è stato anche un flop, alcuni anni fa, con un’acquisizione nel Trentino. Ci costò molto, ma gli insuccessi sono fonte di grandi insegnamenti. Il primo è stato quello di promuovere la diversificazione dei prodotti e incentivare la tecnologia. E, poi, bisogna essere pronti, anche nei momenti di crisi, a cogliere le opportunità».
Un esempio?
«Negli anni Ottanta, le tv di Berlusconi proponevano una formula interessante: fai pubblicità da noi, se ti fa aumentare le vendite paghi, altrimenti no. Fu il veicolo che rese nazionale il nostro marchio, insieme a campagne firmare da registi di livello: da Taviani, a Pontecorvo, a John Landis».
Adesso Bauli esporta in tutto il mondo.
«Dall’Europa, al Giappone, all’Arabia Saudita, al Cile, all’Etiopia, alla Nuova Zelanda, a tutte le Americhe. Arriviamo in ogni continente».
Lei è figlio di pasticcere, ma non sa impastare burro e farina. Ha studiato Economia, sono i numeri la sua guida.
«Il fatturato 2012 è stato di 412 milioni, con l’acquisizione di Bistefani contiamo di arrivare a 500 a fine anno. Nel 2011 abbiamo investito 54 milioni lordi in pubblicità con un ritorno pari al 97% di indice di notorietà di marca secondo la Demoskopea. Nella produzione natalizia, il pandoro Bauli detiene il 31,9% delle quote di mercato e il 20,9% il panettone; la colomba pasquale si ritaglia una fetta del 21,4%; i croissant tengono il 19,5%, il cracker Doriano il 10,7%».
Qualità, tecnologia, diversificazione, distribuzione capillare: ci ha svelato tutti gli ingredienti della ricetta Bauli?
«C’è anche il modello organizzativo che ci siamo dati. Bisogna distinguere la proprietà dalla gestione. La proprietà deve interessarsi di strategie, dare la visione, provocare, spingere, ma tocca ai manager, che hanno una vocazione operativa, occuparsi della gestione. Il passaggio da attività famigliare ad attività manageriale è il più critico per tutte le aziende del nostro settore. L’azienda è una comunità in cui ragionare in modo corale: è il gioco di squadra che la fa grande».
La Stampa – 18 marzo 2013