Il Sole 24 Ore. Il 62% delle aziende alimentari italiane chiuderà il 2020 con un calo del fatturato e il 42% si prepara a una diminuzione degli introiti da export. L’industria del food, insomma, guarda alla fine dell’anno con forti preoccupazioni. Nonostante le fabbriche non abbiano praticamente chiuso durante il lockdown e nonostante gli acquisti nei supermercati siano cresciuti del 4,4% nei primi sette mesi del 2020.
I dati arrivano dal rapporto “L’industria alimentare italiana oltre il Covid-19” presentato ieri e curato da Nomisma per conto di Centromarca e di Ibc. Molta della responsabilità di questo calo delle attese, ancora una volta, va attribuita al sostanziale blocco di bar e ristoranti, i cui consumi valgono il 34% del totale food&beverage in Italia. Così, per un 20% di imprese italiane che quest’anno si aspettano di crescere, c’è un 38% che chiuderà l’anno con perdite superiori al 15%.
Con previsioni di fatturato così, difficile che l’industria alimentare italiana sia disposta a investire nel futuro: ci dicono i dati di Nomisma che prima dell’emergenza l’82% delle aziende aveva pianificato un qualche investimento per quest’anno, ma ora la mancanza di liquidità, le difficoltà di accesso al credito e una congiuntura negativa spingono il 38% delle imprese a rimodularli e il 31% a rinviarli del tutto. Solo un terzo delle imprese prevede di mantenerli, per acquistare macchinari e nuove tecnologie, oppure per sostenere la ricerca e lo sviluppo di nuovi prodotti.
Anche l’export preoccupa gli operatori del settore, e questo nonostante il made in Italy alimentare abbia comunque messo a segno nei primi sette mesi del 2020 una crescita del 3,5% sui mercati internazionali, a fronte di un crollo complessivo di tutte le esportazioni italiane del 14%. Sul fronte dell’export alimentare, l’Italia gioca un ruolo di primo piano sullo scacchiere mondiale: pur occupando solo il 2% della superficie terrestre, è il quinto Paese esportatore, con 36,5 miliardi di euro (dietro, nell’ordine, a Stati Uniti, Germania, Paesi Bassi e Francia).
«Ci eravamo dati l’obiettivo di raggiungere i 50 miliardi di export nel 2020, non ce l’abbiamo fatta», ha ammesso Francesco Mutti, presidente di Centromarca, intervenendo ieri alla presentazione del rapporto. «L’export però per noi resta un volano importante e per rilanciarlo dobbiamo ridurre la burocrazia e scrivere norme che agevolino la possibilità per le aziende di mettersi insieme, in modo da affrontare i mercati internazionali con le dimensioni adatte. I dati di Nomisma ci dicono che lo 0,2% delle aziende alimentari italiane portano il 50% di tutte le esportazioni del comparto: diventa improrogabile il varo di un piano pluriennale che consenta al settore di sostenere la crisi e concentrarsi».
«Il made in Italy agroalimentare ha sofferto per la chiusura dei bar e dei ristoranti – ha ricordato ieri la ministra dell’Agricoltura, Teresa Bellanova, durante la presentazione del rapporto – per questo i 600 milioni che il governo ha stanziato per sostenere la ristorazione, e che spero siano già disponibili entro la fine di questo anno, sono anche un aiuto alla filiera agroalimentare nella sua interezza. Da qui ai prossimi 3 anni si getteranno le basi per i prossimi 30 anni e il nostro Paese deve puntare a potenziare le filiere 100% italiane». Ancora più importanti per rilanciare il comparto saranno i 209 miliardi di euro del Recovery fund in dotazione all’Italia, grazie ai quali potranno essere finanziate tutta una serie di infrastrutture a sostegno anche dell’agroalimentare made in Italy: «Quelli del Recovery plan saranno fondi fondamentali da spendere per esempio nella manutenzione delle campagne e degli invasi, oppure per portare la banda larga nelle zone rurali che oggi ne sono sprovviste», ha detto l’europarlamentare del Pd Paolo De Castro, ieri nella sua veste di membro del Comitato scientifico di Nomisma.
Altro tema importante, per sostenere il futuro del settore, è quello delle competenze: «Dobbiamo saper attrarre più giovani laureati, anche tra quanti dicono di preferire un impiego nelle grandi aziende della tecnologia – ha detto Alessandro d’Este, presidente di Ibc, l’associazione delle industrie di beni di consumo – dobbiamo mettere in evidenza che la filiera agroindustriale rappresenta un settore di attività stabile che può garantire un futuro continuativo ai nostri giovani».