Da Il Fatto alimentare. Capita spesso, girando per gli scaffali del supermercato, di trovare confezioni dall’aspetto affidabile che riportano scritte come “naturale”, “tradizionale” o “100% italiano”. Ma sono veritiere? Purtroppo in Italia non esistono leggi specifiche per alcune definizioni, permettendo così alle aziende di descrivere i propri prodotti in maniera fin troppo generosa.
Nel dicembre 2013, il Codacons aveva segnalato che alcuni prodotti venduti da Eataly, Coop e Carrefour evidenziavano una elevata qualità sull’origine italiana e locale, ingannando i consumatori. Nel punto vendita Eataly di Roma, vicino al banco latticini era esposta la scritta “Latte, yogurt, latticini a Km zero. Gran bei prodotti abbiamo trovato qui in Lazio di Roma (…)“, mentre la maggior parte dei prodotti era stata prodotta e confezionata altrove: gli yogurt, ad esempio, in Trentino. Per quanto riguarda Coop, invece, il 60% delle etichette era incentrata sulle origini italiane, ma risultavano poco chiare e da parte del consumatore medio e in alcuni casi mancavano dei riferimenti espliciti circa la quantità e le percentuali dei vari ingredienti contenuti.
Ad esempio spesso sulle confezioni di pasta di semola di grano duro si trova il marchio “made in Italy” senza però alcuna indicazione dell’origine della materia prima. Stesse accuse per Carrefour, dove il Risotto Carrefour ai funghi porcini non riportava le percentuali degli ingredienti utilizzati. Inoltre sull’etichetta si leggeva che il preparato era stato controllato nelle varie fasi di produzione, senza specificare che erano autovalutazioni, non rilevanti a livello ufficiale.
Destreggiarsi tra rappresentazioni grafiche fuorvianti e claim lontani dalla realtà non è facile: di seguito una lista per non cadere in trappola.
Naturale
Tra tutti i termini che generano confusione, questo è forse l’esempio più lampante. La Food Standard Agency, l’agenzia alimentare britannica, ha emesso questa definizione: “… il prodotto contiene ingredienti naturali prodotti dalla natura, non dal lavoro dell’uomo o con il suo intervento. È scorretto usare il termine per descrivere alimenti o ingredienti per i quali sono state usate sostanze chimiche per cambiarne la composizione o comprendono i risultati di nuove tecnologie, tra i quali additivi e aromi che sono il prodotto dell’industria chimica o ottenuti da processi chimici.”
Il regolamento europeo ammette solo alcuni usi del termine. Lo si può utilizzare qualora si voglia sottolineare che la valenza nutrizionale di un prodotto deriva dalle caratteristiche intrinseche dell’alimento: quindi, è possibile riportare “naturalmente ricco di vitamina E” o “fonte naturale di omega3”, ad esempio. In riferimento agli aromi, indica l’origine della sostanza aromatizzante. Ad esempio, “aroma naturale di caffè” significa che almeno il 95% della sostanza che dà il sapore proviene dal caffè. Inoltre, si può utilizzare la dicitura “al naturale” per alimenti conservati a cui sono stati aggiunti solo acqua e sale, come il tonno. La legge prevede che anche le acque minerali possano essere definite “naturali”. Per il resto, rimane un vuoto legislativo, di cui gli esperti di marketing approfittano nel creare slogan accattivanti. Un esempio sono le Chips al Naturale di Simply Potato: patatine con il 50% di grassi in meno rispetto alle altre, ma pur sempre patatine fritte. Che, come dimostrano gli studi, non crescono nei campi.
Tradizionale
Un altro esempio di vuoto legislativo: questo termine fa leva sulla tipicità di certi alimenti ai quali sono stati aggiunti in realtà ingredienti extra. Come riporta l’Istituto Zooprofilattico Sperimentale del Piemonte, Liguria e Valle d’Aosta, “vengono definiti PAT (Prodotti Agroalimentari Tradizionali) i prodotti agroalimentari e agricoli destinati all’alimentazione umana, caratteristici di un territorio e legati alle produzioni tradizionali locali“. Sono caratterizzati da metodiche di lavorazione, conservazione, stagionatura consolidate in un dato territorio da almeno 25 anni. Tra questi troviamo i marchi di garanzia, come DOP, IGP, STG, DOCG, DOC, IGT. Questa legislatura, però, non pone limiti all’uso improprio del termine “tradizionale”. Un esempio è il Passato tradizionale Knorr, che tra gli ingredienti riporta olio di girasole, estratto di lievito e il latticello. Mentre i primi due difficilmente sono usati dalle nostre nonne per preparare una minestra, il secondo non è nemmeno conosciuto in Italia: come si legge su Wikipedia, è una bevanda popolare nell’Europa settentrionale e in alcuni Paesi asiatici.
100% italiano
Come riporta un’indagine del Mipaaf, per 8 italiani su 10 incide sull’acquisto che il prodotto sia fatto con materie prime italiane e sia trasformato in Italia. E spesso le aziende giocano sulla presentazione delle confezioni, con scritte o disegni che rimandano all’Italia mentre il contenuto di italiano ha forse solo la ricetta: è il fenomeno dell’Italian sounding, molto diffuso anche all’estero. Ad esempio, poche settimane fa avevamo parlato di un prodotto dolciario di una marca tedesca che riportava la scritta “Firenze” sulla confezione.
Artigianale
Ancora patatine: lo scorso febbraio l’Antitrust aveva sanzionato tre grandi marchi per “vanti di artigianalità che non corrispondevano alle caratteristiche reali di questi prodotti”, per l’appunto, industriali. Tra le altre cose, una circolare ministeriale del 2003 ribadisce che diciture come “produzione artigianale” non garantiscono una qualità organolettica, nutritiva o sanitaria superiore; afferma inoltre che un’altra dicitura analoga, cioè “lavorato a mano”, non aumenta la qualità del prodotto e che può essere indicata come garanzia sul metodo, solamente se sia possibile dimostrare l’esecuzione manuale di tutte le fasi del processo produttivo. Quindi, artigianale non vuol dire molto, e non sempre il prodotto proviene da un’impresa “artigiana” e non “industriale”, un esempio su tutti il gelato “artigianale“.
La sua presenza, però, può spesso portare un consumatore a credere di acquistare un prodotto qualitativamente superiore. Un esempio: la Piadina Artigianale all’olio extravergine di Oliva cotto e formaggio di Corte Parma proviene da un’impresa artigiana (o perlomeno lo lascia intendere) ma contiene olio di palma e di girasole, oltre a un generico “formaggio” che si suppone non sia il classico crescione romagnolo.
Le percentuali
Un capitolo a parte è dedicato alle percentuali degli ingredienti, che vanno sempre controllate per non lasciarsi convincere dagli slogan salutistici sbandierati sulle confezioni. Sono tanti i prodotti che sbandierano la presenza di ingredienti sani ma, leggendo con attenzione si può scoprire che sono in quantità ridicole oppure che gli altri ingredienti lasciano molto a desiderare in quanto a benessere. Un esempio sono quei prodotti “con olio extravergine d’oliva” che magari viene accompagnato dall’olio di palma. Un’amara sorpresa per il consumatore che si era fermato alle apparenze. Ci sono poi i succhi di frutta composti per lo più da acqua, zuccheri e aromi, come Santal Benessere con vitamina C Mix frutta al lampone. In quel 30% di succhi e puree di frutta, il lampone, l’ingrediente che dà il nome al prodotto, è solo un 8% del totale. Viene spontaneo chiedersi quanto benessere possa dare un succo di frutta con il 30% di frutta.
Il consumatore non deve mai fermarsi alle apparenze, soprattutto in presenza di queste diciture. Finché non verranno proposte delle leggi che ne limitino l’uso, fa fede solamente l’etichetta.
Il Fatto alimentare – 31 agosto 2015