Valentina Conte, da Repubblica. Che fine hanno fatto? Gli ultimi quattro decreti attuativi del Jobs Act – ammortizzatori, politiche attive, semplificazioni, attività ispettive – sono stati approvati dal Consiglio dei ministri del 4 settembre. Ma da allora se n’è persa traccia. Incalzato, il governo da poco ne ha pubblicato i testi ufficiosi sul sito (e così anche il ministero del Lavoro). Si attendeva, spiegano da Palazzo Chigi, la firma del presidente della Repubblica. Mattarella in realtà li ha vergati quasi subito dopo averli ricevuti, in ritardo, il 14 settembre, dieci giorni dopo il varo e a un soffio dalla scadenza del 16. Ma i testi veri, ufficiali, non sono ancora pubblicati in Gazzetta ufficiale, dunque non sono in vigore. Com’è finita allora la vicenda dei controlli a distanza, la norma più dibattuta del pacchetto? A quanto pare, male per il Parlamento. Il governo ha tenuto la sua formulazione originaria di giugno, senza toccare nemmeno una virgola.
E senza tenere conto delle raccomandazioni non solo delle commissioni Lavoro di Camera e Senato, ma neanche dei caveat dell’Authority per la privacy nella doppia audizione parlamentare. Al punto che ora la stessa Authority, sin qui prudente in attesa dei testi definitivi, teme l’avanzare di un contenzioso infinito. I lavoratori che ritengono di essere stati spiati in violazione della loro privacy e per questo sanzionati o licenziati proveranno la carta difensiva dell’Autorità. Eventualità che non nasconde neanche Palazzo Chigi. «Il testo della norma richiama il codice della privacy, dunque non saranno fatti controlli di massa su tablet, portatili e smartphone, ma a campione », spiega un collaboratore del premier. «E l’Authority può intervenire come vuole, se ritiene ci sia un uso distorto dei dati, ma anche i lavoratori potranno farne ricorso». Un bel groviglio.
La norma pare non ben scritta, i suoi buchi possono aprire voragini. Lo ha fatto capire in più occasioni lo stesso Garante per la privacy, Antonello Soro, che nel discorso sulla Relazione annuale, lo scorso 23 giugno, richiamava l’esigenza di «solide garanzie per evitare che i dati vengano usati “contro di noi”». Chiedendo una «cornice» di queste garanzie proprio al Parlamento. «Un più profondo monitoraggio di impianti e strumenti non deve tradursi in una indebita profilazione delle persone che lavorano», insisteva. Esortando a «coniugare l’esigenza di efficienza delle imprese con la tutela dei diritti». Parole cadute nel vuoto, mentre la tecnologia fa passi da gigante, con telecamere intelligenti e sistemi di geolocalizzazione sempre più potenti e intrusivi.
Dove finisce il controllo, si chiederà il lavoratore, visto che il cellulare me lo porto a casa? E poi cosa controlli: a chi scrivo, con chi parlo, ma anche quello che dico su Skype, ad esempio? Confini laschi, non tracciati ma lasciati aperti dal Jobs Act. «Tanto rumore per nulla», scrive il senatore pd Pietro Ichino sul suo blog. Per 25 anni si sono usati cellulari, pc e gps aziendali – è il ragionamento – senza consenso dei sindacati né loro proteste. Senza casi giudiziali, né interventi dell’Authority. Il Garante gli risponde che non è un problema di sindacati, quanto di «effettiva estensione e pervasività di questi controlli». E di utilizzo dei dati «per tutti i fini connessi al rapporto di lavoro». La novità (e il punto) è questa.
21 settembre 2015