La casa dell’untore è lì, guardata a vista da guardie giurate e vice sceriffi locali. Nessuno può entrare o uscire da quelle stanze maledette, dove un virus chiamato Ebola ha fatto il suo ingresso negli Stati Uniti e minaccia di infettare una grande metropoli. Thomas Eric Duncan, il paziente zero, ha avuto lì, due settimane fa, i primi sintomi della malattia, la febbre alta, gli attacchi di diarrea, il vomito inarrestabile.
Lì dentro vivono come reclusi —ma ci sono voluti l’ordine di un giudice e il braccio armato della legge per impedirgli di uscire — i quattro esseri umani che con lui sono stati a contatto più stretto: Louise Troh, la donna che con Duncan avrebbe avuto anche un figlio (nessuno sa però dire dove sia), un altro figlio di lei tredicenne e due nipoti ventenni.
Tutti chiusi in quella casa, con i segni della malattia che hanno la forma di lenzuola bagnate dal sudore, di asciugamani sporchi buttati per terra, di materassi unti ammassati alle pareti di stucco scrostate. Così ha raccontato Louise, pregando che qualcuno venisse a pulirle quelle stanze, urlando che vuole uscire, che non è malata. Solo ieri mattina, era passato da poco mezzogiorno, il team di specialisti pulitori — preannunciato dall’arrivo di un grande Suv, di un’autoambulanza e di un veicolo dei pompieri — è finalmente arrivato negli “Ivy Apartments”, questo grande complesso di edifici popolari con trecento appartamenti tra Fair Oaks Avenue e Phoenix Drive, in quella parte nord-est di Dallas dove si concentra la maggior parte dell’ultima immigrazione africana. Gli specialisti della Clearing Guys erano andati per “decontaminare” la casa già due giorni fa, respinti al mittente dall’implacabile burocrazia sotto forma di un foglio mancante, il permesso a trasportare “materiale pericoloso” nelle Highway texane. «Doveva darci l’autorizzazione il Dot (Dipartimento dei Trasporti), finalmente ora lo abbiamo», racconta Brad Smith l’uomo che guida i “ragazzi ripulitori”.
La decontaminazione durerà diverse ore, Louise, il figlio e i due nipoti resteranno all’interno, gli ordini sono tassativi. «È per il loro bene» spiega un poliziotto, con il suo compare che ridacchia «ed anche per il nostro e quello di tutti». C’è anche Sally Nuran, la manager degli “Ivy Apartments”, che si gode davanti alle telecamere il suo momento di celebrità, racconta di come i suoi impiegati stiano ripulendo i marciapiedi e le aree comuni ed esclude che Duncan «possa avere girato troppo» in quei pochi giorni che ha passato lì. E ci sono i volontari della Croce Rossa gli unici che hanno avuto il permesso di entrare e lasciare all’ingresso le grandi buste di cibo. «Ne hanno per tre giorni», spiegano quelli della North Texas Food Bank, “ci sono cereali, tonno, pane, bevande e qualche altra cosa”.
Del paziente zero si sa ormai tutto o quasi, perché tra bollettini ufficiali, interviste tv cui nessuno rinuncia, schede sanitarie e racconti di parenti e vicini ci sono alcune cose che non combaciano. È rimasto infettato in Liberia il 15 settembre, solo quattro giorni prima di prendere il volo alla volta degli Usa, quando ha aiutato la diciannovenne Marthalene Williams, figlia del suo padrone di casa, a salire in un taxi e l’ha accompagnata in ospedale. Marthalene, incinta di sette mesi, non venne accettata per mancanza di spazio. Tornata a casa, nel giro di poche ore sarebbe morta.
Il 19 settembre il paziente zero prende l’aereo che da Monrovia lo porterà a Dallas via Bruxelles e Washington. Ha avuto il sospirato visto e vuole raggiungere in Texas la sua fidanzata Louise Troh, anche lei liberiana. «Voleva cominciare una nuova vita in America e voleva sposarla», ha fatto sapere George Mason, il pastore della Wilshire Baptist Church (la chiesa frequentata da Louise), «potete immaginare come sia spaventoso per tutti loro, il terrore del contagio che si mescola alla tristezza per la diagnosi di Duncan». Voleva sposarla, ma passati un paio di giorni inizia a sentirsi male. Ha forti dolori addominali e la febbre alta, ma con le sue gambe (e accompagnato da Louise) il 25 settembre arriva al Texas Health Presbyterian Hospital, il più grande centro ospedaliero della metropoli, poche centinaia di metri di distanza (un quattro d’ora a piedi) dagli Ivy Apartments. Viene mandato inspiegabilmente a casa, nonostante Louise (che lo giura a tutti quelli con cui è riuscita a parlare) dica chiaramente all’infermiera che «é arrivato da un paese dell’Africa a rischio».
L’infermiera quel dato lo registra, lo provano i pezzi di carta fatti arrivare in qualche modo ai giornali e alle tv, ma inspiegabilmente non arriva ai medici che decidono di dimetterlo. Errore umano? Al Presbyterian fanno quadrato, no, «nessun errore umano». Tutta colpa di un software, dicono adesso ufficialmente i manager del centro ospedaliero, che rischia — se il contagio dovesse espandersi — una sequela di cause miliardarie. I referti elettronici contengono due piani di lavoro separaÈ VERO ti, uno per gli infermieri e uno per i medici e le informazioni sull’arrivo dall’Africa di Duncan quel giorno erano presenti sulla cartella degli infermieri e non su quella dei medici. Meglio dunque dare colpa a un software che ha funzionato male («ora è tutto a posto e funzionante», precisano al Presbyterian) e alle bugie dello stesso Duncan, che alla partenza da Monrovia ha negato di essere entrato in contatto con malati di Ebola, evitando così di finire nella “lista nera” delle compagnie aeree. Ora la United, la compagnia con cui è arrivato negli Usa, sta contattando tutti i passeggeri che erano sugli stessi due voli (Bruxelles-Washington e Washington-Dallas) presi da Duncan, anche se in quel momento il paziente zero quasi certamente non era contagioso.
Chi abita negli “Ivy Apartments” è impaurito e allo stesso tempo incuriosito da tanto interesse e tante telecamere. Sono quasi tutti immigrati, parlano una ventina di lingue diverse, molti arrivano dall’Africa e diversi proprio dalla Liberia, abbandonata negli anni peggiori della guerra civile. Vogliono notizie, si informano, qualcuno è la prima volta che sente parlare di Ebola. Per Duncan solo auguri: «Speriamo che ce la faccia».
Repubblica – 4 ottobre 2014