A Strasburgo i popolari tedeschi accusano l’Italia per i conti Il premier: guardare all’eredità dei padri, come Telemaco. Matteo Renzi entra nell’aula di Strasburgo e prende posto al banco riservato alla presidenza dell’Unione. Martin Schulz lo introduce, il premier lo ringrazia: «Faccio a lei e a tutti gli eurodeputati un grande in bocca al lupo da parte del popolo italiano, avete la responsabilità di riportare fiducia e speranza nelle istituzioni europee».
L’emiciclo è quasi pieno, gli indipendentisti euoscettici dello Ukip piazzano tante piccole Union Jack sui propri banchi. Renzi più tardi gli riserverà una carezza: «Potete voltare le spalle all’inno, non ai problemi». A fianco del premier siede il ministro degli Esteri Federica Mogherini. Dietro, lo staff. Renzi spiega all’aula di non voler fare un discorso «di bullet point», di non volere elencare i punti del programma del semestre italiano: «Potrete leggere il documento con le nostre priorità». Annuncia quello «speech di visione» di cui parlavano alla vigilia i suoi. Va a braccio per 17 minuti, al contrario di quanto si era ripromesso, basandosi solo su un foglio di appunti. L’aula lo applaude una decina di volte, in modo fragoroso quando parla del compito dell’Europa nel mondo. Ma soprattutto ci sarà un durissimo scontro sulle politiche economiche con il Partito popolare europeo.
E infatti per raccontare quanto successo a Strasburgo bisogna capovolgere la giornata e partire dalla fine. Sono le sei del pomeriggio, tre ore dopo l’inizio della plenaria, e Renzi ha appena finito di replicare agli eurodeputati. Gli onorevoli italiani lo circondano per salutarlo e rivolto a loro il premier dice: «Sono stato troppo duro? Ma al popolare non potevo non rispondere». Già, perché il nuovo capogruppo del Ppe, il bavarese Manfred Weber, prendendo la parola dopo il discorso di Renzi picchia durissimo, negando di fatto quella flessibilità sui conti che il premier italiano ha incassato la scorsa settimana al summit dei capi di Stato e di governo. Un principio politico che ora le istituzioni Ue dovranno tradurre in realtà ma che Weber stronca: «I nuovi debiti uccidono il futuro, non è che perché i mercati sono più stabili dobbiamo essere flessibili. L’Italia ha un debito del 130% e volete soldi in cambio di riforme? E poi come facciamo ad essere sicuri che le fate? In questi anni abbiamo perso fiducia». Una bordata che fa il bis con le parole di fuoco pronunciate in mattinata all’Aja dal premier olandese Mark Rutte, secondo il quale al vertice di Bruxelles di venerdì scorso lui e la Merkel hanno «stoppato» il tentativo di Francia e Italia di ammorbidire le regole di bilancio.
Renzi nelle repliche risponde duramente a Weber, ricorda che nel 2003 fu la Germania a sforare il 3% per fare le riforme mentre l’Italia chiede più elasticità, non di sfondare il tetto di Maastricht. E poi: «A Weber sfugge che parte dei deputati popolari (Ncd e Udc, ndr) appoggia il mio governo, dunque non so se ha parlato a nome del gruppo o a titolo personale. Se parlava invece a nome della Germania vorrei ricordargli che è stata Berlino a sforare per prima». E comunque, se voleva dare lezioni all’Italia, Weber «qui ha sbagliato posto». Uno scontro che può mettere a rischio i rapporti tra Ppe e Pse che guidano le istituzioni Ue con una Grande Coalizione. Tanto che a caldo il capogruppo del Pse, Gianni Pittella, afferma che «senza la flessibilità sulle regole di bilancio sarà difficile l’accordo con il Ppe sulla fiducia del Parlamento a Juncker», presidente in pectore della Commissione. In serata Renzi parlando a Porta a Porta cerca di calmare le acque dicendo di non credere che la nomina del lussemburghese «verrà rimessa in discussione», anche se conferma di avere dato l’ok a Juncker solo perché c’era il documento approvato dai leader che lo «impegna» politicamente sulla flessibilità.
L’incidente con Weber rischia di offuscare una giornata che in realtà ha colori diversi. Il premier davanti ai 751 eurodeputati fa un discorso profondamente renziano: «Se oggi l’Europa si facesse un selfie nell’immagine vedrebbe il volto della stanchezza, della rassegnazione. Con estrema preoccupazione dico che l’Europa oggi mostrerebbe il volto della noia». Fa l’esempio di Italia e Grecia, paesi che ieri si sono passati il testimone della presidenza di turno dell’Unione. Spiega che parlando di Atene e Roma non si pensa al Partenone e al Colosseo, all’agorà e ai templi, ad Anchise ed Enea, «pensiamo invece alla crisi e allo spread». Per questo, scandisce Renzi, «la vera sfida è ritrovare l’anima dell’Europa, il senso più profondo dello stare insieme». Poi arriva la metafora omerica: Renzi («non ero maggiorenne quando c’è stata Maastricht») si definisce parte di «una generazione nuova, la generazione Telemaco», figlio sul quale grava una responsabilità maggiore rispetto a quella del padre Ulisse. Che riportata al presente è quella di «raccogliere l’eredità dei padri fondatori dell’Unione e assicurare un futuro a questa tradizione, rinnovandola giorno per giorno».
E l’eredita per Renzi si rinnova facendo svoltare l’Europa: «L’Italia non viene qui a chiedere, ma a dire che è la prima che ha voglia di cambiare e la crescita non la chiede un solo Paese, la chiede tutta Europa altrimenti non abbiamo futuro». Il premier ricorda che non chiede di cambiare le regole, ma di applicarle integralmente visto che il Patto si chiama «di stabilità ma anche di crescita». Dunque «non chiediamo scorciatoie, ma ci faremo sentire con tutta la forza di un grande paese». Perché «non siamo un puntino su Google Map, siamo una comunità» e vogliamo un’Europa più semplice, «una smart Europe». Un continente più leggero, più facile, come piace al premier britannico Cameron. Al quale tributa anche il riconoscimento che «un’Europa senza Londra sarebbe meno Europa». E Cameron, da Downing Street, gradisce.
Repubblica – 3 luglio 2014