È arrivato ieri l’impegno delle Casse professionali a mettere 500 milioni sul piatto di Atlante per partecipare all’acquisto dei crediti deteriorati del Monte dei Paschi. La decisione assunta dall’assemblea dell’Adepp (e anticipata sul Sole 24 Ore di sabato scorso) nasce «dall’importanza di investire a sostegno del sistema Paese nel quale i professionisti operano», come spiega la delibera votata ieri dall’associazione degli enti di previdenza.
Tradurla in pratica sarà ora il compito dei consigli di amministrazione delle singole Casse, alla luce delle valutazioni tecniche da parte delle direzioni finanziarie e dei comitati investimenti, ma l’indirizzo è chiaro e offre una sponda all’azione del governo. La ripartizione degli investimenti arriverà a breve, e distribuirà le quote in base al patrimonio netto e al numero di iscritti di ogni Cassa. A quanto si apprende, fuori dalla partita potrebbero rimanere tre enti previdenziali: quello dei commercialisti e degli esperti contabili, la Cassa dei veterinari e Inarcassa, che gestisce contributi e pensioni di ingegneri e architetti.
A spingere in campo le Casse, insieme alle assicurazioni (si parla di Generali, Unipol, Poste Vita) e ad altri soggetti, è il possibile rendimento ma soprattutto l’idea che il contraccolpo sull’economia in caso di insuccesso dell’operazione Mps rappresenterebbe un rischio superiore a quello dell’investimento. Il passaggio, però, potrebbe comportare anche qualche ritorno importante sulla gestione degli enti previdenziali, e soprattutto sui vincoli finanziari che oggi la limitano: non a caso, come si legge nella delibera, oltre alle decisioni dei consigli di amministrazione la traduzione pratica del sostegno ad Atlante deciso ieri avrà bisogno anche delle «formali direttive da parte dei ministeri vigilanti in materia di investimenti».
Il nodo più delicato da chiarire è quello sulla “natura” della Casse, che oggi rientrano nell’elenco Istat della Pubblica amministrazione e quindi nel consolidato della Pa che Roma invia tutti gli anni al controllo di Bruxelles. Se sono enti pubblici, però, il loro investimento potrebbe inciampare in contestazioni europee sugli aiuti di Stato, per cui le Casse sperano in un riconoscimento ufficiale della loro natura privata. Questo passaggio va valutato alla luce del sistema europeo dei conti (Sec 2010), ma porterebbe gli enti previdenziali dei professionisti fuori dal raggio d’azione delle varie spending review che fino a oggi le hanno trattate come Pa a tutti gli effetti.
Il richiamo alle «direttive dei ministeri vigilanti» ha anche un’altra ricaduta possibile. Finora le regole sugli investimenti, e sui limiti ai rischi collegati, avrebbero dovuto trovare spazio in un decreto interministeriale di Economia e Lavoro, previsto dalla manovra estiva del 2011 ma mai arrivato alla Gazzetta Ufficiale. Nelle bozze poste in consultazione due anni fa da Via XX Settembre si legge una griglia piuttosto rigida, che per esempio consentirebbe di investire al massimo il 30% delle proprie disponibilità negli strumenti non negoziati e vieterebbe di dedicare più del 5% dei fondi in forme di investimento emesse da uno stesso soggetto, ma gli enti sperano in una disciplina più leggera, magari sotto forma di codice di autoregolamentazione. Tra le richieste degli enti previdenziali c’è poi una revisione della stretta fiscale sugli investimenti, con l’aliquota al 26 per cento, ma le chance di imboccare questa strada si capiranno solo con il cantiere della prossima legge di bilancio.
Il Sole 24 Ore – 26 luglio 2016