L’export di salumi fa meno gola ai mercati internazionali. Sempre più prosciutti e mortadelle finiscono sulle tavole dei mercati esteri ma nel 2013 l’export cresce “solo” del 5,7%
I salumi italiani strappano un altro anno di crescita sui mercati internazionali mentre su quello italiano prevale il segno meno (a una cifra). Nel 2013 secondo le elaborazioni di Assica, l’Associazione degli industriali dei salumi, l’export è stato di 143.500 tonnellate (+3,8%) per un valore di 1,182 miliardi di euro (+5,7%). C’è stato quindi un rallentamento del ritmo di crescita rispetto alle due cifre del biennio 2O12-2O11 causato, secondo Assica, da un brusco rallentamento degli scambi commerciali; il settore ha comunque registrato un discreto trend dei volumi e un buon risultato in valore. Maggiori i problemi per chi non esporta a sufficienza: per esempio, negli ultimi anni sono andati in apnea finanziaria diversi prosciuttifici, tra cui Brendolan, Carpegna, Gran Sasso. «Nell’anno più difficile per l’economia italiana e per i consumi interni – osserva Lisa l’export ha rappresentato senza dubbio l’unica forza trainante del settore. Come gli altri settori dell’alimentare, stiamo guadagnando posizioni sui mercati esteri, aumentando la quota di export sul fatturato e riavvicinandoci alla media del manifatturiero». L’export di salumi incide per appena l’n% sulla produzione: i margini di crescita sono ancora ampi. Nel 2013 è tornato a crescere l’import: +9,2% in quantità per 43.930 tonnellate e +9,2% in valore per 176 milioni. Nonostante lo sprint dell’import, il saldo commerciale è superiore a un interviene Davide Calderone, dg di Assica – è continuata la crisi dei consumi con conseguenze per alcuni comparti dei salu mi. In attesa dei dati di produzione del prossimo maggio, possiamo anticipare che nel 2013 la produzione ha subito un calo moderato». E nel 2014? «L’export continuerà a crescere» risponde Calderone. Ferrarini torna a sottolineare che «manca un sistema Paese che sostenga i nostri sforzi. Per esempio, è necessario debellare alcune malattie veterinarie negli allevamenti italiani che limitano la gamma dei prodotti esportabili e i Paesi di destinazione: si stimano perdite per la filiera suinicola di 250 milioni». L’imprenditrice si riferisce alla peste suina e alla vescicolare che ancora imperversano in Sardegna e Calabria e che spesso costituiscono un buon pretesto per il blocco delle importazioni. «Spesso – spiega Ferarini – Paesi terzi impongono vincoli burocratici che di fatto svuotano gli accordi di apertura dei mercati economicamente insostenibili le esportazioni». Il caso recente è quello degli Stati Uniti che, dopo alcuni casi di listeria, da settembre sottopongono, in dogana, tutti i salumi italiani a breve stagionatura a controlli sanitari. «In abbiamo prodotto i documenti necessari e abbiamo realizzato due missioni a Washington. Ora attendiamo la visita delle autorità sanitarie americane, forse a cavallo tra giugno e luglio, per verificare il riallineamento alle loro leggi».
Il Sole 24 Ore – 19 aprile 2014