La flessibilità non si impone con diktat formali troppo rigidi
La via italiana al lavoro flessibile è sempre molto complessa. Al contrario di altri ordinamenti, nei quali la parola flessibilità è quasi un sinonimo di semplicità, nel nostro Paese le forme di lavoro non standard sono da sempre regolate da prescrizioni ridondanti e sanzioni molto rigide anche per violazioni meramente formali (con poche eccezioni, come il pacchetto Treu del 1997).
Questa tradizione viene confermata dalla riforma Fornero, sotto diversi punti di vista. Innanzitutto, è un intervento pesante sul piano quantitativo: la legge contiene centinaia e centinaia di precetti. Per applicare tutte queste innovazioni servirà un lavoro di studio e approfondimento molto lungo, che si tradurrà in un costo ulteriore per le imprese che, in questo momento, poteva essere evitato.
Il problema non è solo quantitativo, ma anche sostanziale. Le nuove norme pretendono di condizionare in maniera capillare le scelte dei datori di lavoro che fanno ricorso al lavoro flessibile, nell’illusione di creare occupazione con le regole e i divieti. La complicata e inspiegabile riforma del contratto a termine mostra bene questo approccio. Il legislatore ha l’ambizione di creare per l’impresa un percorso obbligato, nel quale il ricorso al contratto a termine è agevolato solo per il primo rapporto con il lavoratore; dopo questo primo rapporto, l’unico sbocco che sembra possibile è il passaggio al lavoro a tempo indeterminato, mentre l’ulteriore ricorso al lavoro a termine è possibile solo dopo che sono passati due o tre mesi. Si tratta di un percorso sicuramente condivisibile sul piano filosofico, meno se viene imposto per legge: le norme improntate a queste forme di dirigismo non hanno mai prodotto posti di lavoro ma, anzi, hanno sempre stimolato fughe massicce verso forme di lavoro irregolare.
Un altro esempio di complessità indigesta è la riforma delle dimissioni. Un momento molto semplice della vita lavorativa viene ingabbiato dentro una procedura molto complicata, che imporrà costi gestionali di cui nessuno sentiva il bisogno; peraltro, il fenomeno delle dimissioni in bianco poteva già essere efficacemente contrastato con le norme del Codice civile e del Codice penale esistenti. Nuove e complesse procedure formali vengono introdotte anche per i cosiddetti licenziamenti economici. L’impresa che deciderà di sopprimere una posizione organizzativa dovrà avvisare preventivamente il lavoratore e dovrà svolgere una procedura conciliativa davanti alla Direzione territoriale del lavoro.
Se guardiamo all’infelice esperienza del tentativo obbligatorio di conciliazione, che in 15 anni di vigenza non ha mai prodotto alcun risultato, ci chiediamo per quale motivo il legislatore abbia deciso di imboccare una strada del genere
IL Sole 24 Ore – 11 luglio 2012