Due studi pubblicati su Food Policy esplorano le scelte per aumentare il benessere animale. La strategia europea 2012-2015: più equità in accordi internazionali per non danneggiare allevatori Ue.
La Commissione Europea ha da non molto pubblicato la sua strategia per la protezione del benessere animale per il periodo 2012-2015. Nella premessa, si chiarisce che tra il 2000 ed il 2008 l’Unione Europea ha stanziato 70 milioni di euro all’anno per sostenere il benessere animale, di cui il 71% destinato agli agricoltori come misure di sostegno economico. Ma qual è la strategia migliore per promuovere il benessere animale? La strada di obblighi legali? Oppure la certificazione privata di marchi appositi, in grado di garantire consumatori esigenti? O ancora, la presenza di incentivi economici a produttori o consumatori?
La premessa, In ogni caso, è che in Europa non vi sono meccanismi diretti (come in Svizzera e in California) in base al quale i cittadini possano votare direttamente misure sul benessere animale. Alcuni spunti derivano da un paio di studi pubblicati di recente su Food Policy.
Benessere: oltre la “protezione” degli animali
. Il benessere animale è un tema che è stato posto con forza in Europa a partire dal Trattato di Amsterdam del 1998, in correzione al Trattato sull’Unione Europea. Tale atto specifica l’obbligo di considerare appieno gli animali come “esseri senzienti” (vale a dire in grado di provare piacere e dolore), al momento di formulare a adottare le politiche pubbliche della Comunità Europea sul benessere animale (“animal welfare”). Questo fondamento legale è stato poi ripreso dal Trattato di Lisbona del 2007, laddove il benessere animale risulta tutelato alla pari di principi come l’uguaglianza di genere, la protezione sociale, la salute umana, la lotta alle discriminazioni, lo sviluppo sostenibile, la protezione dei consumatori e la protezione dei dati personali. Oggi con “benessere animale” si intende qualcosa di diverso e più specifico rispetto alla “protezione animale”: se infatti questa è da intendersi come ciò che le persone fanno agli animali, il benessere implica una vita degna di essere vissuta, con tutte le implicazioni del caso.
La Commissione Europea in ogni caso, nella sua strategia al 2015, riconosce che la conformità ai requisiti di benessere animale può comportare maggiori costi per i produttori europei. E tali aspetti vanno considerati: “Sull’attuale mercato alimentare globale, gli allevatori e i produttori europei si trovano a far fronte alla concorrenza di vari paesi, alcuni dei quali dotati di norme sul benessere degli animali meno rigorose rispetto a quelle applicate nell’UE. Per attenersi alla normativa europea, più severa, allevatori e produttori europei devono affrontare investimenti maggiori, esponendosi di fatto a uno svantaggio commerciale. Al fine di ristabilire una situazione leale ed equa per aziende ed esportatori europei, l’UE ha inserito le questioni legate al benessere degli animali negli accordi commerciali e organizza eventi di richiamo internazionale per promuovere il proprio punto di vista in materia.”
Consumatori o cittadini?
Un primo quesito fondamentale che emerge dalla due recenti pubblicazioni su Food Policy, riguarda la diversità di atteggiamento che abbiamo a seconda del nostro essere consumatori o invece cittadini. Come cittadini, generalmente ci facciamo paladini di valori che dichiariamo, esprimendo un elevato livello di interesse per gli stessi. Ma come consumatori, non sempre ci dimostriamo coerenti: cioè, disposti a pagare un reale prezzo di mercato per vedere realizzati tali valori.
In base alle survey di opinione ad esempio- che rappresentano uno degli strumenti principali tramite cui la CE valuta l’interesse tematico dei cittadini europei- ben il 64% della popolazione dichiara interesse per il benessere animale (Eurobarometro 2007: e un 60% dichiara che il benessere animale sia aumentato nel corso degli ultimi 10 anni, mentre solo un 8% che è peggiorato). La CE spesso attribuisce a tali indicazioni un valore rilevante. Ma è noto nella ricerca sociale come tali risposte possano avere delle distorsioni sistematiche: si sa, tra il dire e il fare.. Questo perché i cittadini non sono costretti a pagare per quello che ricevono, come invece i consumatori. E possono permettersi di aderire ad aspetti “ideologici” in via gratuita.
Potrebbe essere quindi che i cittadini si attendano che a “pagare” per tali aspetti debba essere la collettività nel suo insieme, e non loro come singoli attori sul mercato.
In ogni caso, alcune ricerche sui consumatori hanno dimostrato che in Europa vi sarebbe una forbice che porta a voler spendere dal 14% a ben il 150% in più per prodotti di origine animale ottenuti in conformità ad elevati standard di benessere animale. Sebbene quindi tale “mercato del benessere animale” sia piuttosto una nicchia, ciò non deve escludere le considerazioni anzidette, ovvero che probabilmente buona parte dei cittadini intendano la sfera normativa e più in generale pubblica come necessaria per regolare un tema percepito al di fuori della tradizionale negoziazione di mercato, in quanto afferente ad aspetti etici di alto profilo, non sempre “mercanteggiabili” tra privati contraenti, e con aspetti diversi rispetto alla certificazione di qualità di prodotto tradizionale (laddove ho un ritorno più misurabile di quel che pago).
Lotta alla fame o diritti degli animali?
Un secondo tema che permea il dibattito riguarda poi la scelta da fare: i metodi di allevamento intensivi sembrano garantire (almeno fino ad un certo punto) una maggiore quantità complessiva prodotta. A discapito però, degli standard di benessere animale. Una domanda centrale, per un mondo proiettato verso i 9 miliardi di abitanti nel 2050 (FAO), riguarda allora la possibilità di riuscire a mantenere o aumentare tali standard di benessere animale mentre Cina, Brasile ed India cominciano ad adottare modelli alimentari simili a quelli occidentali (più proteine e grassi animali, 9 Miliardi di posti a tavola ). Come per l’uso della tecnologia, anche qui il dilemma è profondamente etico: diritti delle persone (ammesso che si possa parlare di “diritto alle proteine animali”) contro diritti degli animali (ammesso che ne abbiano in modo così netto e definitivo). Ma il tema è anche commerciale: in caso di paesi con standard di benessere animale “peggiorativi”, concludono gli autori di uno studio, il ricorso a misure legislative (standard obbligatori di benessere animale) può creare una concorrenza sleale. Sembra in questi casi più opportuno che sia il mercato, tramite il gioco della domanda e dell’offerta, a dare una risposta al tema. Ad esempio, tramite sistemi di tracciabilità certificata e marchi del benessere, per i quali i consumatori (o una loro parte) sono disposti a spendere qualcosa in più- .
Misure politiche, di mercato o alla produzione?
Lo studio di Ingelbeek et al. (“Eu animal welfare policy: Developing a comprehensive policy framework”) condotto a partire da casi di studio in 8 paesi europei, va poi in profondità per capire come vi siano diverse soluzioni per adattare il benessere animale ad aspetti istituzionali e culturali differenti. Sebbene vi sia ancora una ampia discussione tra le migliori opzioni (e combinazione delle stesse), quel che è certo è che un approccio uguale per tutti i paesi sembri poco realistico (vi è necessità di considerare settori e paesi nel dettaglio). Mentre la maggior parte dei cittadini europei si attende ancora un miglioramento del benessere animale nei prossimi anni (77% dei cittadini, Eurobarometro 2007).
Approccio legislativo: tale approccio, che garantisce tramite obblighi normativi un livello minimo oltre il quale i requisiti di benessere animale non possano scendere, sarà efficace solo se verranno stanziate risorse sufficienti per il controllo ed il governo del sistema (enforcement). Sembra efficace quando si vogliano stabilire standard minimi, cui i produttori possano adeguarsi piuttosto agevolmente e senza costi eccessivi. Per contro, quando gli standard legali sono particolarmente elevati ed in assenza di una volontà di spesa del consumatore, si rischia di scaricarne i costi aggiuntivi sui produttori e favorire allevatori assoggettati ad altre normative nazionali più permissive. Ciò avrebbe portato alcuni paesi (Olanda) ad addolcire tali requisiti (sulla filiera suina). Una soluzione parallela, è quella di uniformare il resto degli standard (europei?) agli standard del paese di riferimento. E’ quello che hanno fatto Regno Unito, Svezia e Olanda, facendo pressioni sulla normativa UE perché si adeguasse alle normative più restrittive invocate da questi paesi.
Approccio di mercato (schemi privati, certificazione, programmi di educazione): è uno strumento adeguato in contesti entro cui ci si attende che un’offerta di prodotti certificati possa incontrare la domanda, almeno nel medio termine. Di conseguenza, gli investimenti privati vengono percepiti come positivi. Sono adeguati qualora si vogliano stabilire standard più elevati che nel caso dell’approccio legislativo, qualora il potenziale dispiegato da quest’ultimo sia giunto a “saturazione”. Il meccanismo di mercato sembra valido anche in caso di flussi import-export, con requisiti di certificazione e costi connessi.
Approccio alla produzione (sussidi ai produttori, ai consumatori, cross-compliance EU). Tale scenario prevede che un sistema coordinato di tassazione, che produca denari da usare per incentivi agli allevatori- consumatori, è quello tradizionalmente adottato in Europa con la PAC e la cross-compliance. Questo scenario è quello preferibile quando i primi due non sembrano adatti (ad esempio, impossibilità di controlli efficaci su misure normative; o mancanza di disponibilità di spesa dei consumatori per prodotti certificati sul benessere animale). Questo approccio, prevede alternativamente “sanzioni” (es, mancata erogazione premi) per gli allevatori che non si adeguano ai requisiti imposti circa il benessere animale. Ricordiamo che in base alla proposta della nuova PAC 2014-2020 le misure di cross-compliance verranno mantenute, incluse quelle sul benessere animale- sebbene semplificate da 18 a 13.
L’approccio di tale tipo sembra particolarmente indicato quando vi sono standard normativi nazionali di confronto che sono sia troppo elevati (Svezia) sia troppo bassi ad esempio in ragione di paesi in transizione (Macedonia, Polonia) rispetto alla media UE; e per settori con problemi di conformità alle disposizioni legali. In tal caso i sussidi permettono di superare barriere alla produzione altrimenti difficilmente superabili, garantendo di raggiungere nuovi standard produttivi.
Certo, la questione se sia possibile demandare semplicemente al mercato la soluzione di “imperativi etici” considerati irrinunciabili è sul tavolo: e contribuisce a mostrare il tema per quello che è: il benessere animale non è uno standard certificativo puramente volontario come tanti altri riferiti alla qualità, per quanto importanti, ma un ponte su qualcosa di più e di diverso, che riguarda tutti noi in quanto “esseri senzienti”.
La sempre maggiore comprensione degli aspetti neurologici e cognitivi legati alla sofferenza animale poi sta portando ad una più precisa ricognizione e consapevolezza, che sembra destinata a ricevere via via maggiore attenzione.
•Harvey, D., Hubbard, C. (2013) Reconsidering the political economy of farm animal weelfare: an anatomy of market failure. Food Policy 38, 105-114.
•P.T.M. Ingenbleek, V.M. Immink, H.A.M. Spoolder, M.H., Bokma, L.J. Keeling (2012) Eu animal welfare policy: developing a comprehensieve policy framework. Foop Policy 37, 690-696.
sicurezzaalimentare.it – 20 marzo 2013