dal Corriere della Sera. «L’ossessione verso i diritti rende faticoso vederne i limiti». Comincia così, sul «Guardian», l’articolo con il quale la studiosa australiana di etica Leslie Cannold pone la questione se oggi, quando si parla di veganesimo e di vegetarianesimo, si abbia in mente davvero soltanto il benessere degli animali o piuttosto una presunta superiorità morale di chi decide di non mangiare prodotti di origine animale. L’intellettuale australiana spinge alle estreme conseguenze l’interpretazione di chi crede che il diritto degli animali a non essere uccisi prevalga su ogni altro diritto, che gli animali abbiano un «diritto alla vita». Mette in evidenza il rischio di cadere in una indignazione morale «stridula». E spiega che esiste anche la possibilità di condurre una vita da carnivori etica, a patto di assicurare che gli animali di cui ci nutriamo abbiano vissuto e siano morti senza dover subire sofferenze non necessarie.
A favore. Tutele agli animali ma no a primati etici per chi rinuncia all’hamburger
Elvira Serra. Nessuno di voi ha mai la sensazione che dietro la (legittima) battaglia animalista si nasconda (talvolta) la pretesa di una presunta superiorità etica? Non mangio gli animali, «io» faccio la cosa giusta. «Io» non uccido gli animali, tu invece? In questo modo diventa un peccato mortale prendersi un hamburger al fast food prima di saltare su un treno: chi di noi si macchierebbe di un reato morale, prima ancora che penale?
Nessuno, quasi più. Perché quelli che possono permettersi di acquistare un panino con carne certificata, non proveniente da allevamenti intensivi, ormai fanno la cosa «giusta» senza neanche doverci pensare. Mentre quelli che non possono, sovrappongono il senso di impotenza al senso di colpa: costa troppo, è impossibile fare altrimenti. Tutti però, più o meno, sentiamo di avere una responsabilità verso gli animali che mangiamo, o per mezzo dei quali ci vestiamo, o grazie ai quali ci curiamo. E nessuno, che si ponga il problema, desidera che venga inflitta loro una sofferenza inutile. Su questo ha insistito sul Guardian Leslie Cannold, anticipando quello che dirà oggi al dibattito IQ2 di Sydney dedicato al tema: «I diritti degli animali devono vincere sugli interessi degli uomini?». La sua risposta è no, se è in gioco l’interesse umano a stare in salute. Ma aggiunge che sì, abbiamo una responsabilità precisa, anzi un obbligo, soprattutto adesso, a porre fine alle crudeltà verso gli animali. Chiarito questo con noi stessi, non dobbiamo fare altro che imparare a scegliere: come truccarci, come vestirci, come curarci, boicottando le aziende che non offrono garanzie, per esempio, sugli allevamenti.
Sono passati più di 40 anni da quando Peter Singer scriveva Liberazione animale e proponeva veganesimo e vegetarianesimo come unico passo concreto verso un mondo che non sfrutta gli animali. Oggi, ancora di più, dovremmo chiederci in che modo far valere il principio di responsabilità (anche) verso gli animali. Ma alle domande sull’opportunità di mangiare una bistecca alla settimana o al mese o mai e se avere o no uno o dieci paia di scarpe in pelle, dovremmo poter rispondere in coscienza, senza sentirci per questo peggiori (o migliori).
Contro. Provate a chiedervi «chi» mangio invece di «cosa». Cambia prospettiva
Beatrice Montini. Con molta probabilità guardando nel vostro piatto prima di pranzo vi chiedete: «cosa» sto mangiando? Ma come cambierebbe la vostra vita se a quel «cosa» sostituiste «chi»? Ogni anno sono oltre 150 miliardi gli animali uccisi a scopo alimentare. Una cifra non paragonabile ai numeri delle vittime di una qualsiasi guerra, epidemia o catastrofe naturale. Ma dato che si tratta di animali l’ecatombe non suscita indignazione e continua a ripetersi nella (quasi) totale indifferenza.
Ma davvero l’ homo sapiens ha il diritto di vita e di morte su tutti questi individui solo per assecondare il piacere del palato? Diventare vegan significa essersi posti queste domande e pensare che sia possibile, con poco sforzo e nessun rischio per la salute (al contrario di quando scrive Leslie Cannold sul Guardian ), vivere causando la minor sofferenza possibile agli altri animali e cambiare una prospettiva filosofica che vede l’uomo dominare. Una filosofia che nel 1975 l’australiano Peter Singer, in Liberazione animale , definì specismo. Essere vegan e antispecisti vuol dire insomma credere nella possibilità di impostare su basi nuove la relazione con l’altro, mettere in discussione la distinzione fra umano e animale.
Ma non basterebbe — scrive ancora Cannold — ridurre la quantità di «carne» che mangiamo? Attenuare le sofferenze degli animali prima di ucciderli? Mesi fa, sempre sul Guardian , lo storico israeliano Yuval Noah Harari spiegava, in un articolo condiviso 337 mila volte, come l’allevamento industriale sia uno dei peggiori crimini commessi dall’uomo nel nome di un «progresso disseminato di animali morti» e come sia l’ora di cambiare rotta. «Dobbiamo svuotare le gabbie, non renderle più grandi», ha scritto nel 2004 Tom Reagan. Insomma, come quando la schiavitù era considerata «normale», il movimento che si batteva per la liberazione non voleva solo migliorare la situazione degli schiavi ma porvi fine, così chi sceglie di diventare vegan vuole provare a cambiare la prospettiva. E se qualcuno si sente in colpa mangiando un hamburger, forse, invece di prendersela con animalisti e vegan dovrebbe provare a chiedersi semplicemente perché.
Il Corriere della Sera – 3 maggio 2016