I numeri e le prospettive delineano una situazione, non temporanea, di difficoltà economica per la società titolare di un laboratorio di analisi. Fredda e razionale la reazione: biologa dipendente sostituita con una libero professionista, e 30mila euro all’anno risparmiati. Licenziamento assolutamente non in discussione. Tagli, decisi a Roma, alla Sanità – argomento quanto mai d’attualità – minori fondi per le strutture pubbliche a livello territoriale, riduzione degli incarichi per i Centri privati ‘convenzionati’. Ma l’anello debole della catena è, in realtà, rappresentato dai lavoratori. Perché, di fronte a un minore giro d’affari, è legittimo il ricorso al licenziamento del dipendente – sostituito con un libero professionista – per razionalizzare le spese (Cassazione, sentenza 11465/12).
Economia. Gli slogan sono oramai divenuti quasi un mantra: crisi economica e riduzione dei costi. Elementi che bastano – e avanzano… – per giustificare le operazioni compiute da piccole strutture imprenditoriali. Anche, come in questa vicenda, nel campo della Sanità…
A lamentare gli effetti della contrazione delle attività è la società proprietaria di un laboratorio di analisi, la cui operatività è legata a doppio filo alle disponibilità dell’Azienda sanitaria territoriale. Cala il budget per le prestazioni sanitarie in regime di convenzione, e l’unica biologa a disposizione, assunta tre anni prima, viene licenziata e sostituita con una professionista esterna.
Operazione discutibile? Forse eticamente… Ma, da un punto di vista normativo, essa è legittima: per i giudici di primo e di secondo grado il licenziamento è pienamente fondato sulla base di un «giustificato motivo oggettivo». Decisiva l’ottica della crisi economica, per l’appunto, e della conseguente necessità di «razionalizzazione delle spese», che si è concretizzata, in questo caso, nella decisione di «sopprimere l’unico posto di lavoro, quello di biologa, realizzando una economia di gestione»
Giusta crisi. Davvero questa l’unica visione possibile? Non per la biologa rispedita a casa dopo tre anni di lavoro. Così, il legale, che la rappresenta, propone ricorso in Cassazione, contestando i cardini stessi della pronuncia d’Appello, evidenziando, tra l’altro, che «non era avvenuta alcuna soppressione del settore lavorativo, del reparto o del posto» e che non era stata dimostra l’impossibilità di ricorrere al repechage «tramite l’impiego del dipendente licenziato nell’ambito dell’organizzazione aziendale» o, almeno, di riconoscere alla dipendente un «diritto ad essere preferita nella instaurazione di un rapporto di natura autonoma, che si era iniziato invece con una professionista esterna».
Prima di approfondire la questione, però, i giudici di Cassazione, rimarcano il «potere imprenditoriale di razionalizzare l’attività aziendale», che si collega strettamente anche alle scelte da operare non per «un incremento del profitto» ma per «far fronte a sfavorevoli situazioni» che impongono una «riduzione dei costi».
Ebbene, l’impasse aziendale sotto esame è acclarata: bilancio chiuso con una perdita pari a circa 23mila euro, e situazione «aggravatasi per la riduzione del budget riconosciuto dall’Azienda sanitaria per le prestazioni in regime di convenzione». Alla luce di questi dati, è legittima la scelta adottata per la «riduzione delle spese», ossia la soppressione dell’«unico posto di lavoro» che ha portato a una «economia gestionale pari a 30mila euro annuali».
La Stampa – 1 dicembre 2012