Per i giudici vanno considerate le ragioni organizzative e produttive ma si deve limitare l’impatto occupazionale. È nullo il licenziamento fatto in nome della produttività ma in violazione dei criteri individuati nell’accordo sindacale.
La Corte di cassazione, con la sentenza 19177, sottolinea il ruolo centrale delle organizzazioni sindacali nella gestione della crisi delle imprese. E, fedele all’orientamento affermato, respinge il ricorso fatto da un’azienda alimentare che non aveva mantenuto fede al patto sottoscritto con i rappresentanti sindacali di metter in mobilità o licenziare solo chi aveva maturato il diritto alla pensione e non si opponeva alla mobilità.
La “scelta” era caduta su un lavoratore che aveva maturato come altri il diritto alla pensione, senza fare, come richiesto dai giudici di merito, «un’utile comparazione» con gli altri dipendenti. Secondo la ricorrente, la posizione del lavoratore licenziato non poteva essere messa a confronto con quella di nessun altro, essendo lui l’unico nella sua area a possedere la qualifica di quadro, un profilo professionale considerato in esubero.
La valutazione non convince però la Suprema Corte. I giudici, pur nella consapevolezza che, in base alla legge 223/1991, l’individuazione dei lavoratori da mettere in mobilità deve avvenire tenendo presente le esigenze tecnico-produttive e organizzative dell’azienda, ricordano che lo scopo va raggiunto con il minor sacrificio “umano” possibile. «La stretta connessione tra l’interesse del singolo lavoratore alla conservazione del posto di lavoro con quello del recupero della produttività delle imprese, da perseguire con ricadute sul piano occupazionale di minore impatto possibile, giustifica il ruolo delle organizzazioni sindacali volto a cercare un equilibrato bilanciamento tra tali distinti interessi».
Ruolo che, sottolineano i giudici della sezione lavoro, consente alle organizzazioni sindacali di disporre di margini di flessibilità nei criteri di scelta dei lavoratori, decidendo sia per la prevalenza di uno sull’altro sia per il concorso tra più criteri, con l’unico limite di non trasgredire il divieto di discriminazione.
«Nella gestione della crisi delle imprese – si legge nella sentenza – il ruolo del sindacato finisce così per assumere una indubbia rilevanza, come espressamente ora attestato dall’articolo 45 della legge 92/2012». A questo proposito la Cassazione tiene a sottolineare che è stato il legislatore con la legge Fornero a mettersi sulla scia dei giudici, i quali avevano già riconosciuto agli accordi tra le parti sociali anche l’effetto di sanare il vizio della mancata comunicazione dell’apertura delle procedure di mobilità (sentenza 25892 del 2008).
Secondo la Cassazione il criterio utilizzato per licenziare il lavoratore era dunque arbitrario, proprio perché era estraneo al contenuto dell’accordo, con il quale l’azienda, dopo aver quantificato gli esuberi presso ogni singola unità, aveva individuato due unici criteri, precisando che erano alternativi e sostitutivi di quelli indicati dalla legge 223 del 1991.
Il Sole 24 Ore – 20 agosto 2013