di Paola Rossi. Il dipendente pubblico, assegnato dal proprio dirigente allo svolgimento di mansioni superiori, ha diritto a vedersi corrispondere non solo la differenza stipendiale, ma anche tutti gli altri emolumenti accessori, comprese le indennità «di risultato». E, precisano le sezioni Unite civili della Cassazione, ciò va riconosciuto senza limiti temporali. Con la sentenza n. 13579/16 il giudice di legittimità sposa la linea della Corte costituzionale favorevole all’integrale applicazione al pubblico impiego «privatizzato» dell’articolo 36 della Carta, che riconosce il diritto a una retribuzione proporzionata e sufficiente. Di conseguenza boccia un’ampia giurisprudenza amministrativa di totale segno opposto.
L’Inps in linea con i giudici amministrativi
Il dipendente Inps aveva ottenuto piena ragione dal giudice di merito di secondo grado e trova oggi conferma dal rigetto del ricorso per cassazione promosso dall’Istituto. A nulla sono valse le argomentazioni dell’Inps, che sosteneva l’esistenza di un trattamento giuridico diverso tra comparto pubblico e privato in ordine allo svolgimento di mansioni superiori, escludendo la piena equiparazione.
A sostegno della propria tesi l’Inps richiamava le diverse posizioni della giustizia amministrativa, fino al più alto consesso dell’Adunanza plenaria del Consiglio di Stato. Un filone di giurisprudenza contrario – in ambito pubblicistico – al pieno riconoscimento della differenza retributiva tra qualifica posseduta e mansioni superiori svolte, in quanto lesivo di un altro importante principio costituzionale, contenuto nell’articolo 98 della Carta, che impone l’economicità e la trasparenza dell’azione amministrativa.
La Cassazione aderisce alla Consulta
Ma la Cassazione, nella sua formazione più importante in termini di nomofilachia, cioè le sezioni Unite, ha aderito agli opposti assunti del giudice delle leggi, il che in sé rappresenta una posizione anche logica trattandosi di principi costituzionali appunto. La Cassazione rigetta anche l’argomento – sostenuto da Inps e giudici amministrativi – secondo cui non sarebbe assimilabile al comparto privato il lavoro pubblico, in quanto in tale ultimo ambito vige il principio di assumere le posizioni lavorative in base a procedure preminentemente concorsuali. La Cassazione, invece, conclude facendo due importanti precisazioni e cioè che il diritto alla differenza stipendiale non è legato alla correttezza formale dell’assegnazione di funzioni superiori, ma alla circostanza che esse siano state effettivamente svolte dal dipendente. E che la differenza dell’intero trattamento economico della qualifica superiore va riconosciuto anche se lo scarto riguarda ben due livelli e che può essere riconosciuto anche nella forma di un pattuito e adeguato compenso aggiuntivo. E il diritto non viene meno neanche per l’irregolarità o l’assenza dell’atto di incarico.
Il divieto soppresso con efficacia retroattiva
La Corte di cassazione a sezioni Unite, infine, aderisce al principio già fissato dagli stessi giudici di legittimità e dalla Corte costituzionale: nel pubblico impiego privatizzato, il divieto di corresponsione della retribuzione corrispondente alle mansioni superiori, stabilito dal comma 6 dell’articolo 56 del Dlgs 29/1993 (come modificato dall’articolo 25 del Dlgs 80/1998) è stato soppresso dall’articolo 15 del Dlgs 387/1998 con efficacia retroattiva. Infatti, la modifica del comma 6 ultimo periodo disposta dalla nuova norma è una disposizione di carattere transitorio, non essendo formulata in termini atemporali, come avviene per le norme ordinarie, ma con riferimento alla data ultima di applicazione della norma stessa e quindi in modo idoneo a incidere sulla regolamentazione applicabile all’intero periodo transitorio. Ne consegue che il principio della retribuzione proporzionato e sufficiente dell’articolo 36 della Costituzione è applicabile anche al pubblico impiego senza limitazioni temporali.
Il Sole 24 Ore – 8 luglio 2016