La Cassazione salva l’impiegato scansafatiche e, ironia della sorte, condanna l’azienda che voleva rivalersi sulla sua «inattività» a rimborsarlo con 3.050 euro (per l’esattezza 50 per le spese di giudizio e tremila per compensi professionali).
È accaduto ad un dipendente dell’Agenzia delle Entrate, G. C. che, nel 2000, si era visto appioppare una sanzione disciplinare dalle Entrate in Calabria «per il rifiuto di qualsiasi attività lavorativa, nonostante gli inviti rivoltigli». Un rifiuto che si era protratto per un intero anno dall’ottobre 1998 all’ottobre dell’anno successivo. L’azienda – ricostruisce la sentenza 24009 della sezione Lavoro – era al corrente della «condotta inadempiente» del lavoratore ma per diverso tempo non aveva fatto nulla, salvo poi sanzionare G.C. a scoppio ritardato.
Inutile il ricorso dell’Agenzia delle Entrate contro la decisione della Corte d’appello di Catanzaro (gennaio 2010) che aveva dichiarato l’illegittimità della sanzione. La Suprema Corte ha respinto il ricorso delle Entrate e ha fatto notare che l’azienda «da parecchi mesi era a conoscenza» dell’inattività del dipendente come risultava da una nota del direttore che «evidenziava che il lavoratore si era rifiutato di prestare la propria opera già dall’aprile e dal giugno ’99».
Lo stesso dipendente aveva insistito per avere una «specificazione dei compiti assegnati con ciò dimostrando di non compiere alcuna attività». D’altra parte, aggiunge ancora la Suprema Corte, «la stessa amministrazione ha espressamente ammesso la conoscenza della condotta inadempiente del lavoratore già da tempo, difendendosi proprio con la permanenza della stessa». Nulla, dunque, la contestazione tardiva. Le Entrate, a questo punto, dovranno anche risarcire il dipendente per le spese processuali sostenute, pari a 3.050 euro.
(Adnkronos) – 31 dicembre 2012