Un secolo fa erano estinti. Oggi sulle Alpi ne sono censiti oltre 80 mila: talmente tanti da minacciare i pascoli dove brucano le mucche. La rivolta degli allevatori contro i cervi parte da Cortina d’Ampezzo, località- simbolo delle montagne italiane. Qui il boom del re delle foreste ruba ormai l’erba necessaria alla sopravvivenza di stalle e malghe d’alta quota. « Se andiamo avanti così — dice l’allevatore Stefano Ghedina — le aziende chiudono.
Ogni sera una sessantina di cervi mi rasa i prati destinati allo sfalcio. L’erba, invece di superare il mezzo metro, non arriva a dieci centimetri. Dovrei avere fieno per 50 mucche tutto l’anno, non arrivo a sfamarne 30 per sei mesi » . Nell’Ampezzano le stalle rimaste sono sette. La concorrenza dei cervi, esplosa sull’altopiano del Cansiglio, spinge gli allevatori dell’intero arco alpino a invocare una revisione nazionale dei piani di abbattimento degli ungulati.
« O i cacciatori possono fare più selezione — dice Ezio Dorigo, allevatore a Laste di Rocca Pietore — o non ha più senso salire negli alpeggi estivi.
Quest’anno dovremo ritardare almeno di due settimane e a chi produce formaggio non conviene. Senza considerare che l’esplosione dei cervi è la causa dell’invasione dei lupi, sempre al seguito delle loro prede. Ai piedi della Marmolada, in tre mesi, abbiamo perso quaranta capi » .
I numeri confermano. Nel 2010 in Valboite non si arrivava a 900 cervi: in aprile si è superata quota 1700. Nel Bellunese siamo oltre i 10 mila, come nel Parco dello Stelvio, fra Trentino, Alto Adige e Lombardia. La crescita media della popolazione, tra Valle d’Aosta e Friuli Venezia Giulia, è di circa il 25% all’anno.
All’origine dell’esplosione, invecchiamento e abbandono di boschi e pascoli, causa della migrazione verso la pianura di caprioli e cinghiali. « Spariscono i prati — dice lo zoologo Luca Pedrotti — e i cervi da straordinari opportunisti vanno a cercare erba dove c’è. Se in un chilometro quadrato si concentrano oltre 40 animali, qualcuno deve cambiare zona.
Un equilibrio tra natura e agricoltura si può comunque trovare » . In allarme però ci sono anche i sindaci. I cervi pascolano e si postano di notte, branchi sempre più numerosi attraversano le strade e gli incidenti con auto e moto sono quotidiani. Cause e richieste di risarcimento danni intasano i tribunali. « Chiediamo — dice Giuseppe Pan, assessore alla caccia della Regione Veneto — di cambiare il piano venatorio nazionale. La natura non può più trovare da sola un equilibrio. Il numero dei cervi va ridotto, seguendo la via percorsa per cinghiali e nutrie. È il più grosso erbivoro selvatico delle Alpi, mangia dove pascolano le mucche e attira sempre più lupi dall’Europa orientale. Le scelte, dallo Stato, devono passare agli enti locali » . Lo scontro si estende così a cacciatori e animalisti, che chiedono invece di non abbassare la tutela su una delle specie- chiave della catena alimentare alpina, decimata fino agli anni Settanta. Per le associazioni ambientaliste il boom dei cervi di queste settimane è infatti causato dal clima eccezionale degli ultimi inverni. « Per due o tre anni siccità e alte temperature invernali non ha fatto selezione tra cuccioli e bestie malate — dice lo zoologo Paolo Pedrini — mentre usciamo da una stagione ricca di neve. In quota ce ne sono ancora metri, sui fondovalle il caldo improvviso ha già fatto esplodere l’erba. Così la fauna non può salire e bruca sui pascoli delle mucche. Più che una battaglia vacche- cervi occorre un confronto tra scienziati, allevatori e contadini: e non sono le doppiette a poter risolvere il problema cruciale della nostra epoca » .
A Cortina però, chi resiste con una stalla, non vuole più ragionare e pretende « l’unica soluzione immediata realistica » : il via agli abbattimenti. « Un cervo — dice Ranieri Caldara, allevatore a Mortisa — mangia come una manza, oltre 25 chili di erba al giorno. In primavera i giovani devono crescere, le femmine sono gravide, i maschi devono rifare il palco. Basta una notte e un pascolo fresco scompare. In estate le feci dei cervi finiscono nel fieno, trasmettendo parassiti e malattie ai bovini. Chi pretende latte sano e paesaggio curato, deve tutelare prima di tutto chi in montagna ci vive». L’ultima guerra è quella per l’erba: il limite estremo di una montagna ignorata.
Repubblica – 10 maggio 2018