La legge che ha reintrodotto in Italia l’obbligo di indicare lo stabilimento di produzione degli alimenti non può essere applicata. Le aziende che non stampano sulle confezioni il luogo dal quale esce quel pacco di pasta o di biscotti, insomma, non possono essere sanzionate perché il testo approvato non è legittimo. A ribadire quello che molti giuristi davano già per assodato è, per la prima volta, un tribunale.
Nello specifico, il giudice Angela Salvio della diciottesima sezione civile del tribunale di Roma, che ha respinto il ricorso dell’ex viceministro Andrea Olivero nei confronti di Dario Dongo, direttore del sito di informazione alimentare Great Italian Food Trade ed esperto di diritto alimentare. Dongo era stato querelato per diffamazione in un articolo in cui spiegava proprio i motivi per cui la legge è, di fatto, inapplicabile. “Pur con affermazioni colorite e veementi”, scrive il giudice, il giurista ha scritto la verità.
Grazie a questa informazione i consumatori possono infatti compiere delle scelte consapevoli, privilegiando il made in Italy a scapito di tanti prodotti con marchi simil-italiani ma realizzati all’estero. L’indicazione dello stabilimento aiuta anche in caso di allerta alimentare: le autorità possono infatti risalire alla fonte accorciando di molto i tempi di intervento. Per queste ragioni diverse aziende già avevano deciso, prima ancora che la legge venisse approvata, di mantenere l’indicazione in etichetta.
La mancata notifica. Lo scorso Governo ha così approvato una nuova legge. Ma trattandosi di una legge potenzialmente in conflitto con la normativa europea, l’Italia avrebbe dovuto prima notificarla alla Commissione perché la analizzasse e, se necessario, suggerisse modifiche.
Nei mesi scorsi su Repubblica lo avevamo già detto: questa notifica non è mai stata fatta, O meglio, è stata fatta nel modo sbagliato. L’Italia ha cioè agito come se volesse mantenere una legge – quella sullo stabilimento di produzione del 1992 – già esistente. Ma l’entrata in vigore della normativa Ue l’aveva già fatta decadere nel 2013.
Il risultato, come spiega il giudice, è “la inapplicabilità della normativa interna e la non opponibilità ai privati”. Significa che le aziende alimentari possono sostenere, con ragione, il vizio procedurale della legge e che i giudici nazionali sono tenuti a disapplicarla.
Sulla stessa strada. La posizione dell’industria alimentare resta comunque a favore del decreto 145, che, a detta dei produttori, rimane una buona legge. “L’indicazione della sede dello stabilimento deve essere considerato un valore aggiunto e non un inutile vincolo formale” dice a Repubblica Luigi Scordamaglia, ex presidente di Federalimentare e oggi numero uno di Filiera Italia.
“La cosa grave è piuttosto che l’Unione Europea abbia cancellato tale obbligo tra le informazioni obbligatorie in etichetta consentendo ad aziende che producono fuori dai nostri confini di confondere il consumatore italiano con l’indicazione magari in etichetta di un semplice ufficio commerciale o di un importatore e facendogli credere che il prodotto sia italiano senza esserlo”, continua, aggiungendo che Filiera Italia non solo è a favore della conferma dell’obbligo ma anche alla sua introduzione in tutta Europa.
Secondo Scordamaglia non è la sentenza di pochi giorni fa a cambiare le cose: “Non basta il pronunciamento di un giudice su un ricorso di urgenza nell’ambito di un procedimento civile, peraltro relativo ad un articolo su web, a formalizzare l’inapplicabilità del decreto 145. Al momento quindi non sussistono pronunciamenti che facciano venir meno tale obbligo per le aziende italiane”.
“Ho sempre sostenuto e ribadisco tutt’ora che la sede dello stabilimento in etichetta è un must per la salvaguardia e la valorizzazione del made in Italy nel mondo” è la posizione di Dongo, “ma il governo Gentiloni ha deliberatamente violato le regole europee”.