Mangiare meglio, mangiare meno, mangiare tutti. È lo slogan lanciato dalla Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition: invita a tenere assieme le ragioni della salute, dell’ambiente e della coesione sociale in un modello equilibrato. Peccato che in Italia stiamo andando in direzione inversa. La dieta mediterranea ottiene consensi crescenti in molti Paesi, ma nel luogo simbolo di questo stile alimentare il consumo di cibo veloce e disordinato conquista clienti, mentre la crescita della speranza di vita si arresta, il diabete guadagna malati, il peso dell’italiano medio cresce.
Un panorama ampio della situazione verrà dal Food and Sustainability Index, l’indice che sarà reso noto domani al VII Forum internazionale su alimentazione e nutrizione promosso dalla Fondazione Bcfn. Per la prima volta l’indice, analizzando 25 Paesi (di cui 19 del G20) e 16 megalopoli, fotografa i luoghi dove si mangia meglio. Meglio dal punto di vista della lotta contro lo spreco di cibo, dell’aiuto all’agricoltura sostenibile e della battaglia contro la fame e l’obesità.
Ma la preoccupazione sanitaria legata all’uso del cibo cresce: «Negli ultimi tre decenni in Italia si è registrato un aumento costante della speranza di vita: ogni quinquennio un anno in più. Dal 2014 però questa curva si è appiattita», spiega Gabriele Riccardi, ordinario di endocrinologia e malattie del metabolismo alla Federico II di Napoli. «Si ha la sensazione che i progressi ottenuti con il miglioramento delle terapie mediche e chirurgiche comincino a essere controbilanciati dai risultati di uno stile di vita sbagliato».
La dieta mediterranea per i più è un amarcord. Prendiamo ad esempio le raccomandazioni dell’Organizzazione mondiale della sanità che riprendono i capisaldi dello stile alimentare italiano tradizionale. Ogni giorno, dice l’Oms, si dovrebbero consumare cinque dosi di frutta e ortaggi: lo fa solo un italiano su 20; e appena uno su cinque arriva a mettersene nel piatto quattro. Un altro indicatore: i cereali integrali. Se ne dovrebbero consumare 50 grammi al giorno. Ma solo il 23 per cento della popolazione italiana si ricorda dei cereali integrali almeno una volta a settimana. E ne prende meno di metà della dose consigliata.
A fronte di un eccesso di cibi squilibranti c’è poi un difetto di esercizio fisico: basterebbe una buona passeggiata ogni giorno per dare una piccola scossa positiva all’organismo, ma pochi se ne preoccupano. Così il diabete è aumentato del 25 per cento in dieci anni e il 46 per cento degli italiani si ritrova a essere in sovrappeso o obeso (tre punti percentuali in più in cinque anni). L’allontanamento dalla dieta mediterranea è non solo controproducente a livello personale, ma dannoso per gli equilibri globali. Dai dati di Eating Planet, il volume pubblicato da Edizioni Ambiente e curato dalla Fondazione Barilla, risulta che due miliardi di persone sono in sovrappeso, mentre 800 milioni hanno scarso accesso al cibo. E il modello della doppia piramide alimentare (recentemente rivisto sulla base di 1.300 studi scientifici) dimostra che gli alimenti a minore impatto ambientale sono consigliati dai nutrizionisti, mentre quelli con un’impronta ambientale più alta vanno consumati con moderazione anche per motivi di salute. Il sistema alimentare che fa male al nostro organismo fa male anche al pianeta: l’impatto sul clima dell’agricoltura contribuisce all’allarme dell’Ipcc (International Panel on Climate Change). «Dovremmo cominciare a chiederci qual è il prezzo del cibo che consumiamo», ricorda Riccardo Valentini, ordinario di ecologia e membro dell’Ipcc. «Le cosiddette esternalità negative, cioè i guasti prodotti dall’eccesso di chimica in agricoltura e da pratiche intensive che impoveriscono i terreni, non vengono conteggiate. Si è scatenata una corsa all’abbassamento dei prezzi che non tiene conto né dei valori nutrizionali né dei danni che la collettività subisce. È l’inganno dei prezzi: il costo reale è molto più alto di quello che appare in etichetta».
«Bisogna ripensare il modo di produrre cibo e una delle soluzioni è legata all’economia circolare», aggiunge Giampiero Maracchi, climatologo e presidente dell’Accademia dei Georgofili. «Si può aumentare il reddito agricolo recuperando gli scarti per la produrre biomateriali: una nuova frontiera in cui l’Italia gioca un ruolo di primo piano. Del resto è un ritorno all’antico. Prima del XX secolo le campagne rispondevano alla domanda di trasporto con gli animali, di energia con la legna, di manifattura con le fibre tessili».
Repubblica – 30 novembre 2016