di Gian Arturo Ferrari. Non avevo ancora vent’anni quando Kennedy morì. Stavo entrando all’università di Pavia, nel collegio fondato quattro secoli prima da Pio V, il papa grifagno che aveva vinto a Lepanto, tra ragazzi di pochi mezzi e di qualche merito. Povere mete, le nostre, come le avrebbe chiamate, spietato, Alberto Arbasino.
Eravamo stati tutti, spontaneamente, kennediani e ancor più lo eravamo nei giorni di Dallas. Mi sono domandato che cosa avesse avuto da dire a noi, alla nostra periferia italiana, ai nostri modesti orizzonti, quel giovane uomo potentissimo e ricchissimo. «Era molto, molto ricco», disse di lui una volta l’avvocato Agnelli, che gli era amico. Con lo stupore un po’ rispettoso e un po’ pensieroso di chi non trova
di frequente qualcuno più ricco di sé medesimo.
Certo, anche noi studenti poveri vedevamo, sentivamo e subivamo il tratto più evidente di Kennedy, il glamour , la sua chiave universale, il magnete della sua persona. L’impalpabile scioltezza con cui si muoveva, la schiena un po’ contratta per la ferita di guerra. L’eleganza spontanea, non studiata, così distante dagli infagottamenti grigiastri degli anni Cinquanta. Le costose semplicità di cui si circondava, prati, vele, moglie e bambini perfetti. La retorica che sembrava antiretorica tanto era efficace, costruita con le parole della Bibbia e di Shakespeare, i ritratti del coraggio e la nuova frontiera. Il governo come gruppo di amici, tutti giovani e brillanti — the best and the brightest — in maniche di camicia e cravatte allentate a guidare la metà buona del mondo. E quella specie di brezza costante intorno a lui, l’aria di cose sempre mosse, come il vento di Berlino un mese dopo il Muro e tre prima di morire, con le vecchie che avevano visto Hitler e l’Armata Rossa ad applaudirlo e a piangere.
Son passati cinquant’anni, ma nessun uomo politico è riuscito a superare o anche solo a eguagliare Kennedy in fatto di fascino. Non Clinton, nonostante la sua solarità. Non Blair nonostante avesse il vantaggio del contropiede, quello di stagliarsi sullo sfondo del partito meno glamorous del mondo. Certo, noi ragazzi di allora non sapevamo. Solo dopo ci avrebbero detto di Joe Kennedy, il padre, quel filonazista. Che, secondo il James Ellroy di American Tabloid , era anche il cassiere della mafia nordamericana, ma si sa i romanzieri… E solo più tardi ci avrebbero raccontato della notte delle elezioni, quando lo chiamò il sindaco Daley di Chicago, non precisamente uno stinco di santo, e gli disse: «Mr President, with the help of God, and a few good friends, we’ll carry the Illinois» e cioè «Signor presidente (non lo era ancora, ma in un certo senso Daley lo nominava in quel momento), con l’aiuto di Dio — e di alcuni buoni amici — le porteremo l’Illinois», cioè i voti decisivi.
Non sapevamo. Non vedevamo l’alone d’ombra, quello più scuro, intorno alla fine di Marilyn, sparita nel mistero a trentasei anni. Non vedevamo, non c’era ancora, il cuore di tenebra del Vietnam — l’errore strategico fatale — l’abisso che avrebbe inghiottito decine di migliaia di americani e milioni di vietnamiti.
Ma oltre le rivelazioni e le sconsolate analisi e le delusioni, e oltre le domande che non avranno mai risposta sulla sua morte — su chi, come e perché lo ha ucciso — rimane davvero qualcosa di Kennedy? Quando divenne presidente nel 1960 la guerra era finita da quindici anni. Non erano stati allegri, quei quindici anni. La retorica del miracolo tende a rappresentarli come una vivace anche se faticosa scalata. Ma non è stato così.
C’era asprezza, c’era durezza, c’era anche angustia e costrizione, un senso di soffocamento. La politica suonava la stessa musica, nella tenaglia della Guerra fredda mostrava un volto arcigno. Ike e Mamie Eisenhower, dopo i sorrisetti delle campagne elettorali, non erano una coppia incoraggiante. In Italia i democristiani dicevano cose incomprensibili, perduti in misteriose alchimie. I comunisti restavano idealmente allineati, con un ideale cappello in testa, su un ideale mausoleo di Lenin. Kennedy, all’improvviso — sembrava venisse da un altro mondo — dissolse tutto questo. Con lui ogni cosa cambiò, il clima, il tono, l’aura. Una lunga stagione si chiuse e se ne aprì una nuova, che dura tuttora. La cui caratteristica essenziale era ed è l’impetuoso ingresso nella politica delle democrazie di fattori emotivi ed empatici. Esaltati naturalmente dal medium televisivo il cui obiettivo, dai tempi di Kennedy quando era ai primi passi, si è sempre più avvicinato, ha sempre più zoomato, fino a bloccarsi in una specie di perenne primo piano dei leader. Ma allora, prima che comparisse la massmediologia, quel che si provò fu un grande senso di liberazione, come di un collare che si allenta, di un giogo che si solleva. Un senso di liberazione tanto forte e pieno che negli anni successivi venne poi a varie riprese e in vari ambiti ricercato, con risultati non sempre commendevoli. Questa apertura di libertà fu il primo vero lascito di Kennedy. Poi, e di conseguenza, ci fu l’adesione di massa, appassionata, alla democrazia. Qualcosa che non si era mai visto, essendo la democrazia di sua natura poco entusiastica, legata più alla convenienza che all’esaltazione, una cosa un po’ da bottegai. Ed essendo per contro l’adesione di massa legata ai totalitarismi, alle parate, alle divise militari o paramilitari. Kennedy seppe fare della democrazia un sentimento collettivo, la tolse dal suo arrocco in sola difesa e la rese un valore vivibile, un qualcosa cui partecipare, un orizzonte di speranza. E questo secondo lascito fu il suo miracolo.
Il Corriere della Sera – 22 novembre 2013