Un altro passo avanti. Ieri pomeriggio i ministri dei 195 Paesi e i commissari Ue della Cop21, il vertice Onu sul clima, hanno consegnato alla presidenza francese una nuova versione della bozza d’accordo. Il testo è ormai di 29 pagine, rispetto alle 43 di sabato scorso, e tre quarti dei passaggi tra virgolette hanno trovato una soluzione.
Ma su molti dei temi di fondo non è ancora stato raggiunto un compromesso. Ieri sera i negoziatori si sono quindi rimessi al lavoro e la discussione – ovviamente proseguita tutta la notte – si protrarrà almeno fino a questa sera. Con l’obiettivo di arrivare appunto a un documento definitivo che dovrà essere ulteriormente limato e tradotto in sei lingue, nella speranza di poter essere adottato in assemblea plenaria domani alle 18.
Rimangono sostanzialmente aperti tre aspetti: quello sugli obiettivi di lungo termine per quanto riguarda l’aumento della temperatura; quello sul rispetto degli impegni presi e su scadenze e modalità di revisione; quello infine sull’entità dello sforzo finanziario a carico dei Paesi sviluppati e sulla partecipazione a questo sforzo dei Paesi emergenti. Cioè l’ossatura dell’intesa.
Basti dire che nel testo di ieri rimangono 15 punti cruciali dove bisogna scegliere tra varie opzioni e oltre 200 passaggi tra virgolette con formulazioni tra loro alternative.
Per esempio sull’obiettivo finale di contenimento del surriscaldamento, le tre opzioni sono: «Contenere l’aumento della temperatura sotto i due gradi rispetto all’era preindustriale»; «molto al di sotto dei due gradi (incrementando rapidamente gli sforzi per limitare l’aumento della temperatura a 1,5 gradi)»; «sotto 1,5 gradi». Più di cento Paesi – quelli a maggior rischio di disastri naturali, inondazioni o prolungate siccità, cui si sono aggiunti Canada e Australia – insistono perché il target venga portato a 1,5 gradi. Mentre quasi tutti i Paesi sviluppati – e anche molti emergenti – vogliono limitarsi ai 2 gradi. Va ricordato che i programmi presentati da 184 Paesi alla vigilia della Conferenza (tra gli assenti l’unico di peso è il Venezuela) consentirebbero di contenere l’aumento della temperatura in 2,7 gradi.
Un altro esempio emblematico è quello del timing delle riduzioni delle emissioni di gas a effetto serra (principalmente l’anidride carbonica che proviene dall’utilizzo delle energie fossili). Ecco le due opzioni presenti nella bozza a proposito dell’obiettivo dei due gradi: «Da raggiungere il più presto possibile, con tagli (compresi tra il 40% e il 70%/compresi tra il 70% e il 95%) entro il 2050 rispetto al 2010»; «nel corso del secolo tenendo conto delle evoluzioni tecnologiche e dei criteri di equità nello sviluppo». Emergenti e Pvs militano ovviamente per questa seconda versione, perché non vogliono sacrificare la loro crescita sull’altare dei vincoli ambientali quando sono ancora lontani, in termini di benessere diffuso, dai Paesi sviluppati che negli ultimi 200 anni sono stati i principali responsabili dell’inquinamento. Come ha ancora sottolineato due giorni fa il ministro indiano dell’Ambiente Prakash Javadekar.
Questa spaccatura Nord-Sud emerge anche a proposito dei fondi che i Paesi sviluppati dovrebbero garantire a emergenti e Pvs entro il 2020 (100 miliardi di dollari all’anno, nel 2014 eravamo a 62 miliardi) per aiutarli a modificare il loro modello di sviluppo basandosi su una economia sempre più “decarbonizzata”. E sull’implementazione di queste risorse a partire dal 2020. In un comunicato congiunto, India, Cina, Brasile e Sudafrica hanno espresso la loro delusione per «lo scarso impegno dei Paesi sviluppati nonostante la loro responsabilità storica».
Marco Moussanet – Il Sole 24 Ore – 10 dicembre 2015