Disoccupati che hanno già esaurito la cassa integrazione, disabili, persone che fanno un lavoro «gravoso», come i muratori o gli infermieri. Saranno queste le categorie dalle quali dovrebbe pescare in larga misura l’Ape, il meccanismo allo studio del governo che consentirà, ai nati tra la fine del 1950 e l’inizio del 1954, di lasciare il lavoro con tre anni e sette mesi di anticipo rispetto a quanto previsto dalla Legge Fornero.
La misura sarà sperimentale, per due anni, poi si potrà correggere il tiro. E questa è una novità. Di fatto un’apertura ai sindacati nel tentativo di trovare un’intesa che al momento ancora non c’è, con la Cgil più fredda rispetto a Cisl e Uil. Che comporta anche una riduzione delle risorse da inserire nella legge di Bilancio: 400 milioni di euro invece dei 600 di cui si era parlato finora.
L’incontro tecnico di ieri fra governo e sindacati ha confermato le notizie degli ultimi giorni ma anche portato qualche novità. Chi lascerà volontariamente il lavoro prima subirà un taglio del 5% sull’assegno lordo per ogni anno di anticipo. Considerando i 3 anni e sette mesi di anticipo massimo, il taglio potrà arrivare fino al 15/18%. Ma poi bisogna aggiungere gli interessi per la banca e la polizza assicurativa contro il rischio di premorienza. Alla fine il costo potrebbe arrivare a sfiorare anche il 25%. Non poco, anzi. Chi invece rientra nelle categorie tutelate, come i disoccupati e i disabili, perderà al massimo il 3% l’anno. Nulla se la sua pensione sarà al di sotto dei 1.500 euro lordi al mese, intorno ai 1.200 netti. Per questo il grosso dei 350 mila lavoratori che secondo il governo potrebbero rientrare nel primo anno di applicazione dell’Ape dovrebbero venire proprio da qui.
Dal confronto di ieri è arrivata anche un’altra novità importante: le imprese saranno chiamate a coprire una parte del taglio dell’assegno se il lavoratore sceglie di andare in pensione prima come conseguenza di una ristrutturazione aziendale. Un modo per evitare che alcune imprese siano tentate di mandare via i loro dipendenti più anziani, per poi scaricare il costo dell’operazione sullo Stato.
Sulla quattordicesima – l’assegno in più incassato a luglio dai pensionati a basso reddito – l’accordo è chiuso come previsto. Andrà a un altro milione e 200 mila pensionati, alzando la soglia di reddito massimo da 750 euro a 1000 euro lordi al mese. Chi già la prende avrà un ritocco del 25%. Confermato anche l’aumento a 8.124 euro della no tax area, la soglia al di sotto della quale non si pagano tasse, e la ricongiunzione gratuita dei contributi per chi li ha versati a enti previdenziali diversi. Ci sarà un intervento sulle attività usuranti: l’età della pensione viene sganciato dall’aspettativa di vita, che oggi sposta in avanti l’età del ritiro un mese l’anno.
Il ministro del Lavoro Giuliano Poletti si dice «ottimista» sulla possibilità di trovare un’intesa con i sindacati. L’incontro di ieri, però, si è incagliato sui lavoratori precoci, quelli che hanno pagato almeno un mese di contributi prima di aver compiuto 18 anni. Il governo ha messo sul piatto un mini intervento, con la cancellazione di un meccanismo per ora solo congelato che riduce gli assegni a chi va in pensione a meno di 62 anni. I sindacati chiedono di più: un bonus da almeno due mesi di contributi per ogni anno di lavoro. Ma costerebbe troppo, oltre 600 milioni di euro. Un problema. Governo e sindacati si rivedranno il 21 settembre. C’è tempo fino ad allora per trovare una soluzione.
Lorenzo Salvia – Corriere della Sera – 13 settembre 2016