di Paolo De Ioanna. La formula per cambiare la PA è innovativa e seducente: si tratta dei piani industriali territoriali (pit). Questa formula comparve già nel 2007 con risultati deboli, eppure l’idea era allora ed è oggi buona pur difficile da attuare. Si parte da una circoscrizione territoriale (tornano utili le deprecate province) e si individuano le funzioni cruciali di cittadinanza che costituiscono il telaio portante di un’economia competitiva: scuola, università, uffici tributari e giudiziari, trasporti, forze armate e di polizia, previdenza.
Si mettono al lavoro i tecnici e gli specialisti per ogni politica pubblica (ce ne sono di ottimi dentro le amministrazioni) e si costruisce la mappa delle prestazioni necessarie a far sviluppare una comunità di persone su un territorio; si individuano i colli di bottiglia (poche o troppe risorse umane, poche o troppe risorse di beni e servizi), i piani delle competenze locali e centrali in causa, e si ridefiniscono funzioni di produzione che ottimizzano le risorse in essere senza tagli e senza aggiunte. A partire da questa ottimizzazione virtuale per settore, si indicano le ricollocazioni di personale, territoriali e professionali, che è necessario attuare e da qui si possono costruire ulteriori elementi per determinare come procedere. È il cuore della revisione della spesa calata nel concreto. Per simulare questa prima fase occorre immaginare che le risorse umane possano essere spostate in ambiti territoriali predefiniti con costi sopportabili per i lavoratori. E’necessario presentarsi al confronto con i lavoratori con i piani o almeno con una idea concreta di cosa essi significhino. E’ più o meno quello che accade nelle aziende industriali della Germania. Fu la ragione per cui l’esperienza nel 2007 si fermò: i piani non c’erano e dovevano esser costruiti. Ma si cominciò a parlare di mobilità. Lo scambio potrebbe essere: il governo difende il lavoro in essere o ne crea di nuovo per i giovani, non ammini-strativo bensì tecnico, ma il sindacato accetti di ragionare in una ottica di ottimizzazione che include spostamenti e riqualificazioni. Tutto semplice? Purtroppo no. Per avviare questa macchina occorre studiare i piani, le semplificazioni interne e presentarsi al confronto con chi lavora con proposte strutturate. Se il datore pubblico si presenta con una lista di tagli per fare cassa e con aggiustamenti giuridici che devono liberare le scelte datoriali, è difficile che la controparte dica: accomodatevi pure. L’allusione all’industria significa che tutto può essere riconsiderato, non in funzione del profitto che non regola l’agire amministrativo ma dei servizi che devono essere resi al meglio nell’interesse di cittadini e imprese. I piani sono funzioni di produzione che esprimono una rinnovata organizzazione dei servizi. Su questa base si individuano poi i complessi normativi che è necessario eliminare, innovare o modificare. Da qualche parte deve esserci la lista di azioni di revisione della spesa predisposta alcuni mesi fa dal commissario. Molte proposte potrebbero essere trasformate in pit se riempite con un lavoro fine. I cittadini e le imprese sono affamati di risultati che migliorino la qualità della vita, i pit servono a questo. Si tratta di iniziare un lavoro o di continuarlo se è già iniziato; in questo secondo caso, si tratta di cominciare a capire qual è la qualità e lo spessore del lavoro già fatto. I pit sono l’opposto dei tagli contabili, fin qui attuati con effetti sul freno alla spesa di investimento ma con risultati negativi sul livello dei servizi, e pare che lo stesso Pil non se ne sia giovato. Sarà interessante capire se la parola resta ai giuristi e ai contabilisti che mettono in campo le clausole di salvaguardia (con i bravi politici che eseguono come perfetti funzionari) o se entrano in campo culture nuove capaci di innovare la gestione delle politiche pubbliche. Questi sono i pit che servono alla nostra economia. Semplificare e innovare partendo dai servizi e dalle risorse, non tagliare alla cieca con improbabili, generici e fragili riferimenti ai costi della spesa privata.
(30 giugno 2014) Repubblica.it