Il decreto legge che recepisce gli effetti della sentenza Corte costituzionale relativa alla mancata perequazione dei trattamenti pensionistici superiori a tre volte il trattamento minimo interviene anche sui coefficienti negativi di capitalizzazione del montante contributivo.
Infatti, per la dote contributiva accumulata fino al 2013, a causa del periodo di forte recessione, il coefficiente di rivalutazione avrebbe assunto valori negativi. A distanza di venti anni dalla riforma Dini (Legge 335/1995), quindi, il Governo è dovuto intervenire per porre rimedio a una situazione non considerata dalla norma.
Secondo la riforma Dini, il tasso annuo di capitalizzazione è dato dalla variazione media quinquennale del prodotto interno lordo nominale, appositamente calcolata dall’Istituto nazionale di statistica, con riferimento al quinquennio precedente l’anno da rivalutare. Come detto, nulla era stato previsto qualora tale indice avesse assunto valori negativi.
Alla fine dello scorso anno la problematica era stata ufficializzata creando apprensione nei confronti di quei lavoratori prossimi all’uscita dal mondo del lavoro e che nella propria pensione avevano una quota contributiva.
Tale quota è prevista dal 1996 con riferimento a quei lavoratori che avevano meno di 18 anni di contributi al 31 dicembre 1995 oppure erano privi di anzianità contributiva alla stessa data, mentre interessa solo le retribuzioni successive al 2011 nei confronti dei lavoratori che al 1995 hanno almeno 18 anni di contributi. Per questi ultimi (ex retributivi) l’impatto risulta essere minimo, vista l’esiguità del montante.
L’indice della media quinquennale del Pil calcolato risulta pari a -0,1927 e avrebbe svalutato il montante contributivo (cioè i contributi versati e rivalutati negli anni precedenti) accumulato al 31 dicembre 2013. La crisi, dunque, avrebbe tagliato le pensioni future poiché chi era già in pensione non è interessato da tale indice.
L’Inps, a novembre, ha dichiarato che, salvo indicazione contraria del Governo, non avrebbe svalutato i montanti ma si sarebbe limitato a confermare quello già accumulato. Di fatto si era in presenza di una neutralizzazione della “svalutazione” (rivalutazione negativa).
Il decreto legge dovrebbe confermare la posizione dell’Inps, prevedendo che in ogni caso il coefficiente di rivalutazione del montante contributivo, come sopra determinato adottando il tasso annuo di capitalizzazione, non può essere inferiore a uno. Tuttavia si stabilisce un meccanismo di compensazione da effettuare sulle rivalutazioni successive.
In altri termini la svalutazione verrà “rinviata” a quando l’indice assumerà valori positivi. Una compensazione su più annualità salvo che il lavoratore non acceda alla pensione prima di poter beneficiare di ulteriori rivalutazioni nel qual caso sembra salvarsi dall’azione di recupero.
Coloro che accederanno alla pensione entro quest’anno, pertanto, non “restituiranno” nulla mentre a coloro che andranno in pensione con decorrenza dal 2 gennaio 2016 sarà effettuata la compensazione. Ciò sempre a condizione che il prossimo indice Pil, quello che servirà a rivalutare i montanti contributivi accumulati alla fine del 31 dicembre 2014, assuma valori positivi.
In caso contrario, l’ulteriore ed eventuale indice negativo si andrà a sommare con quello dello scorso anno e il recupero sarà effettuato nel 2017. Si deve desumere altresì che il recupero potrà essere effettuato nei limiti dell’indice positivo dovendo evitare che un indice di rivalutazione, per effetto del recupero delle svalutazioni precedenti, possa assumere a sua volta un valore negativo.
Il costo della misura di congelamento dell’indice negativo è stimato, secondo il decreto legge, in oltre 12 milioni di euro da qui al 2024.
Il Sole 24 Ore – 21 maggio 2015