Il concorso è la via ordinaria non solo per le assunzioni pubbliche, ma anche per le “promozioni” di chi è già in organico. Su questi presupposti il Consiglio di Stato, con la sentenza 4139/2015, ha annullato gli atti della Giunta regionale della Calabria con la quale era stata data copertura a circa mille posti di funzionario: non attraverso un ordinario concorso pubblico ma con una selezione verticale interamente riservata agli interni. Il Consiglio di Stato richiama il principio più volte affermato dalla giurisprudenza costituzionale (da ultimo con la sentenza 227/2013) secondo la quale il concorso pubblico costituisce la regola ordinaria di accesso nei ruoli delle pubbliche amministrazioni, in coerenza con i principi di uguaglianza (articolo 3), di imparzialità e di buon andamento (articolo 97). I concorsi interni, o comunque le selezioni riservate agli interni, sono da considerare come eccezione al generale principio dell’ammissione in servizio per il tramite del pubblico concorso.
Anche la facoltà del legislatore di introdurre deroghe a questo principio deve essere delimitata in senso rigoroso: le deroghe sono legittime solo se funzionali al buon andamento dell’amministrazione e se ricorrono peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico idonee a giustificarle.
Il Consiglio di Stato riconosce al concorso pubblico un ambito di applicazione particolarmente ampio: esso vale non solo per le ipotesi di assunzione di soggetti in precedenza estranei alle pubbliche amministrazioni, ma anche ai casi di nuovo inquadramento di dipendenti già in servizio e quelli di trasformazione di rapporti non di ruolo, e non instaurati ab origine mediante concorso, in rapporti di ruolo. Principio di particolare interesse è quello per il quale la scelta di effettuare selezioni verticali, in deroga al pubblico concorso, deve essere adeguatamente motivata e proporzionatamente vanno espresse le ragioni della deroga. Si tratta ora di valutare quali possano essere gli effetti di una decisione del genere, sia nei confronti della Regione parte del giudizio sia nei confronti delle altre Pa che abbiano deciso progressioni verticali con atti privi di adeguata motivazione o come spesso avvenuto senza alcuna motivazione. Sugli effetti nei confronti della Regione interessata è dei più l’opinione che l’attuale prestazione lavorativa sia priva di titolo: l’effetto di novazione del contratto di lavoro che segue alla verticalizzazione cade con l’annullamento giudiziale degli atti a monte derivante dalla sentenza definitiva.
In materia va richiamato il contratto nazionale di Regioni ed enti locali, il cui articolo 14 precisa che «è, in ogni modo, condizione risolutiva del contratto, senza obbligo di preavviso, l’annullamento della procedura di reclutamento che ne costituisce il presupposto». In altri termini, una volta annullati giudizialmente gli atti amministrativi posti a monte dell’avvenuta assunzione, il contratto di lavoro dei dipendenti dovrebbe essere risolto. Salvo a voler discutere e interpretare il termine «procedura di reclutamento» come attinente solo alla prima costituzione di un rapporto di lavoro, tesi in verità di difficile dimostrazione essendo da sempre la verticalizzazione una novazione del contratto e una nuova assunzione.
Sulle altre Pa, invece, un atto di autotutela amministrativa sarebbe in contrasto con il principio (legge Madia) per il quale l’annullamento d’ufficio venga effettuato entro 18 mesi e non più entro «un tempo ragionevole». Ragionevole lasso di tempo che nel caso di specie (le progressioni sono per lo più sino al 2009) sarebbe anche poco dimostrabile. Malgrado le perplessità però, come fatto per i dirigenti delle Entrate potrebbe essere cercata una soluzione legislativa: i funzionari interessati hanno fatto affidamento sulla correttezza della procedura adottata, e ora si vedono retrocessi dopo circa 12 anni, per un difetto di motivazione del quale, probabilmente, sarà difficile trovare il responsabile. E questa soluzione, difficilmente potrà essere in una legge regionale, palesemente incostituzionale (la materia è di diritto civile) per violazione dell’articolo 117 della Costituzione.
Pasquale Monea – Il Sole 24 Ore – 28 settembre 2015