di Paolo del Bufalo e Roberto Turno. Medici a go-go in Sardegna, al lumicino in Lombardia. Bolzano che doppia l’Abruzzo per dirigenti non medici e la Liguria rispetto alla Campania per il personale sanitario non medico. Mentre è ormai agli sgoccioli la partita dei costi standard 2013 di Asl e ospedali, ma deve ancora aprirsi quella per il 2014, le Regioni presentano fondamentali di spesa e di struttura sulle montagne russe. Segno che i costi standard – e il prossimo «Patto per la salute» – dovranno riportare ordine nei comportamenti e nella spesa locali. Anche perché l’accesso alle cure sotto la crisi è a rischio e la sostenibilità del Ssn in bilico: dal 2006 al 2012 i disavanzi hanno toccato quota 32 miliardi. Quasi tutti nelle otto regioni commissariate o sotto piano di rientro dal deficit, cui fanno capo il 40% degli italiani.
Costi standard e «Patto» le cure della sanità in rosso. In sette anni accumulato un deficit pari a 30 miliardi
La spesa per il personale in due anni è scesa dell’1,5%, per beni e servizi è salita dall’1,4, per i medicinali in farmacia ha perso il 9,1%. Neanche il tempo di festeggiare lo scampato pericolo dei tagli già pronti con la legge di stabilità per il 2014, che appena arrivato il nuovo anno, stappato lo spumante, sarà subito tempo di magra per la salute degli italiani. Perché sarà tempo di dieta – o di razionalizzazione, a seconda dal punto di vista – per i bilanci sanitari locali.
Arrivate ad accumulare in sette anni, tra il 2006 e il 2012, la bellezza di 29,5 miliardi di deficit nelle pieghe dei bilanci di Asl e ospedali, le Regioni dovranno far di lesina. E, in conseguenza delle loro scelte, a stringere la cinghia saranno gli italiani. Che già versano una fiche da 4,5 miliardi l’anno per pagare i ticket, soprattutto nelle Regioni commissariate o sotto schiaffo da parte del Governo con 24 milioni di cittadini nelle briglie. Contribuenti e imprese angariati da maxi addizionali Irpef e Irap ai livelli massimi. E che, se non bastasse, spendono di tasca propria per la salute altri 29,39 miliardi. Come dire che i costi totali della salute, tra spesa pubblica e privata, valgono 140 miliardi l’anno. Mentre la crisi incalza e le famiglie si impoveriscono: 9 milioni di italiani (e 5 milioni di famiglie) rinunciano o alle cure o le rinviano.
È in questo quadro spesso al limite del collasso, con le strutture pubbliche a loro volta alle prese con un’improbabile quadratura del cerchio dell’assistenza dopo le cure da cavallo da BerlusconiTremonti a Mario Monti, che sul Ssn piomberà il nuovo «Patto per la salute». Accompagnato dalla spending review di Carlo Cottarelli, che porterà con sé anche il tentativo di incidere sulla corruzione (5 miliardi di costo in più) contro cui invoca una lotta all’arma bianca anche la Corte dei conti. Perché se la legge di stabilità ha lasciato indenne la quota di 109,9 miliardi del Fondo sanitario per il 2014, a dare una spuntatina alla spesa inutile e improduttiva, o peggio, sarà appunto il «Patto» a mettere in chiaro dove e come dovrà affondare il bisturi dei tagli. Presto detto, peraltro, perché gli obiettivi sono da sempre noti e ben individuati. Farcela, è chiaro, sarà altra cosa.
E dunque, prepariamoci. Gli ospedali, soprattutto quelli piccoli almeno sotto gli 80 posti letto, verranno messi in cura dimagrante: chiusure, accorpamenti, riconversioni. Prevedibile un’altra riduzione di almeno 10-15mila posti letto per ricoveri acuti, anche se poi i governatori in qualche modo potranno fare da sé. L’altra carta sarà quella delle cure più diffuse sul territorio – vale a dire fuori ospedale – le mitiche cure h24 con equipe di medici di famiglia e specialisti. Va da sé che se si sguarnisce l’ospedale e il territorio non decolla, sarebbe un disastro ancora peggiore di quello di oggi. Tanto più che i medici di base, visto l’atto di indirizzo delle Regioni sul rinnovo delle convenzioni, già sono sulle barricate.
Altro capitolo sotto osservazione sarà quello dei farmaci. Chissà poi che non si spuntino le unghie ai baroni universitari, e, altra notizia positiva, si dia spazio ai giovani ricercatori e ai medici a spasso. E proprio i medici, come tutto il personale, avranno un paragrafo a loro dedicato nel «Patto». A perdere? Si vedrà. Certo è che tra i buchi neri dell’assistenza sanitaria nelle strutture pubbliche, dopo la scure di questi anni, blocco del turn over, pensionamenti ed esodi vari, stanno mettendo in ginocchio l’assistenza. Ma ci sono anche troppi primariati, reparti doppione, troppe clientele politiche, insomma, da abolire.
Come dire che il «Patto» potrà essere un’occasione, ma anche un rischio, a seconda di dove e come colpirà. D’altra parte quei 29,5 miliardi di disavanzi in sette anni, in grandissima parte sono stati prodotti nelle 5 Regioni commissariate (Lazio, Campania, Abruzzo, Molise e Calabria) e nelle 3 sotto piano di rientro dal debito (Piemonte, Puglia e Sicilia). Che poi sono tra quelle che meno hanno garantito i livelli essenziali di assistenza. E dove la spesa ha avuto andamenti che neanche sulle montagne russe. Con escursioni per singoli settori a livello generale, che non sempre si spiegano: la spesa per il personale in due anni è scesa dell’1,5%, quella per beni e servizi è salita dall’1,4, la medicina di base è aumentata dello 0,9 e quella per i farmaci in farmacia ha perso addirittura il 9,1. Segno che qualcosa non va nella governance generale. E non solo.
Conti di Asl e ospedali. La Sardegna ha il 72% di medici in più della Lombardia in rapporto alla popolazione
La Sardegna con il 72% di medici in più della Lombardia in rapporto alla popolazione. Bolzano con il doppio dei dirigenti dell’Abruzzo sempre rispetto ai residenti. La Liguria con il 70% in più di personale sanitario non medico (infermieri, tecnici, ostetrici) della Campania. Ma anche la Sicilia che per i farmaci spende più del doppio di Bolzano. E Lombardia e Lazio che destinano ai privati accreditati un quarto della loro spesa sanitaria pubblica, oltre due volte i costi di un pacchetto di mischia come Toscana, Umbria, Emilia, Marche e Sardegna.
Benvenuti sull’ottovolante della spesa di Asl e ospedali, dove ogni regione fa da sé. In omaggio al federalismo e alle scelte locali, ma anche non raramente senza alcun motivo. Un pianeta, il Ssn, che varrà il prossimo anno 110 miliardi con 695mila dipendenti (dati 2011) e un giro d’affari che, grazie all’apporto della filiera della salute nel suo complesso, vale l’11,2 del Pil. Un volàno formidabile per l’economia nazionale grazie al contributo delle imprese. Ma anche, stando ai bilanci del Ssn, un potenziale imbuto di sprechi e uscite non sempre giustificate. Almeno 1,5 miliardi di sprechi, per esempio, si calcolano per le spese non sanitarie: lavanderie, mense, utenze telefoniche, gas, luce, acqua, pulizie, che valgono oltre 4 miliardi l’anno. Poco meno del costo dei ticket per gli italiani. Per non dire delle gare taroccate, degli acquisti fuori ordinanza, del coacervo di promozioni non dovute, di consulenze, attività intramoenia illegittime.
Tutte le onde anomale, insomma, di quel mare magnum dei conti di Asl e ospedali che non tornano mai. Soprattutto da Roma in giù. E sui quali – scommessa in tutti i sensi miliardaria – dovrebbe ora calare impietosa l’accetta dei costi standard e della spending review. «Mi accontenterei di risparmiare 15 miliardi in cinque anni e investirli sulla salute», sostiene il ministro Beatrice Lorenzin. Vedremo cosa farà Carlo Cottarelli, commissario alla spending. Certo è che i costi standard, perfino quelli per un 2013 ormai finito, sono appesi a un filo. In settimana i governatori tenteranno di trovare una quadra, altrimenti si sposterebbero 200-300 milioni che lascerebbe nell’imbarazzo un gruppetto di regioni, prime Liguria e Basilicata. E poi c’è la partita del benchmark da rifare per il 2014. Come dire: i costi standard, e i loro effetti, sono tutti da vedere alla prova. Anche se il primo risultato sarà di mettere spalle al muro le regioni canaglia. Già qualcosa, ma non i 30 miliardi di risparmi che vaticina il leghista Luca Zaia.
Costi standard difficili da mettere a fuoco, però, con le Regioni in ordine sparso sulle voci di spesa, dove ognuna fa da sé senza una base comune.
E proprio la voce del personale è sintomatica, anche se rispetto al 2011, ultimo anno di cui sono disponibili i dati disaggregati, c’è in agguato l’effetto della legge 122/2010 di TremontiBrunetta, che ha previsto un salasso dal 2011 al 2013 e che ha come conseguenza, assieme ai blocchi del turn over, una riduzione media stimata già nel 2012 di almeno il 4% degli organici. Per il Ssn si dovrebbe tradurre in circa 18mila unità, di cui almeno 5mila medici.
Ma che le Regioni siano andate da sempre, e vadano tuttora, in ordine sparso è scontato. Certo, ognuna fa per sé, con proprie scelte politiche. A volte giustificate, altre no. Lombardia e Veneto, per esempio, dove più si indirizza la mobilità degli italiani in cerca di cure fuori casa, hanno meno personale medico, e non solo, ma ne avrebbero più bisogno. Il contrario della Calabria. O ancora: se la Toscana ha un’alta percentuale per abitante di personale sanitario non medico, dipende anche dal forte impulso dato alle cure fuori ospedale. Come non avviene in Campania, Calabria, Sicilia o Lazio, che hanno poco personale anche perché la scure dei piani di rientro sta riducendo all’osso organici e servizi.
Peccato che nelle regioni canaglia i conti non vadano bene e non tornino mai. E tra ticket e maxitasse, a pagare sono sempre gli stessi. Gli assistiti e i contribuenti onesti.
L’analisi di Roberto Turno. Cercasi progetto credibile
Si fa presto a parlare di costi standard in sanità. La famosa siringa che costa da 1 a 20 centesimi, a seconda di chi acquista. A parte che i conti si fanno in altro modo, la scommessa è un’altra: fare dell’alchimia dei costi standard un progetto credibile. E del benchmark tra le Regioni virtuose, una virtù a prova di bomba. Quella dei costi standard per Asl e ospedali, da Siracusa a Domodossola, è una scommessa in piena regola. Ma ineludibile, al di là della propaganda leghista di risparmi ultramiliardari. Troppe spese sono agli estremi da un capo all’altro d’Italia, troppo diversi i comportamenti, non tanto le scelte politiche e organizzative locali che possono essere dettate anche da condizioni sociali, epidemiologiche o anagrafiche. Quando davvero quelle “scelte” non sono frutto di incapacità, di clientele e di malversazioni. Ingiustificabile il vuoto che può capitare di osservare, ad esempio, di centrali d’acquisto in alcune regioni per spuntare prezzi vantaggiosi. Ed è qui che dovranno intervenire i costi standard. In fretta, senza indugi. Come ormai invocano tutte le regioni con i conti in regola, sebbene anche loro ancora per poco dopo i tagli degli ultimi tre anni. Perché anche le regioni benchmark ormai non sono più disposte (non ce la fanno più) a cedere quote di finanziamenti per tappare i buchi delle altre. A meno che non si mettano in regola. Di corsa. E mentre le regioni sull’orlo del baratro, d’altra parte, ormai alla frutta perché sotto piano di rientro o commissariate, invocano clemenza perché da loro le cure rischiano di diventare un’utopia. Peccato che poi a pagare sono sempre gli stessi: i pazienti (e contribuenti). Ma pagheranno mai gli amministratori incapaci? I costi standard, sia chiaro, non sposteranno chissà quali cifre. Ma, sulla carta, potranno (potrebbero) innescare comportamenti finalmente in linea, generare risparmi, frenare la dinamica della spesa, ridurre il tendenziale che altrimenti galopperebbe che neanche Varenne. Altrimenti dovremmo dire addio a quel che resta dell’universalità delle cure, chissà se del tutto a quel diritto alla salute garantito dall’articolo 32 della Costituzione. Con tutte le conseguenze del caso di una sanità a gironi: quello infernale per i (sempre più) poveri, e quello dove potranno accomodarsi i più ricchi. Magari anche un terzo girone da purgatorio. Per questo, e per tanto altro ancora, certe scelte non possono più essere rinviate. Per questo tante categorie dovranno perdere pezzi di sovranità. Per questo vanno combattuti i gattopardi d’Italia, quelli che “tutto cambi perché nulla cambi”. Per questo, spendere meno per spendere meglio, non è un’equazione impossibile. Qualcosa, e non poco, da raschiare nel fondo del barile c’è, eccome. A volte molto. Anzi, moltissimo.
Il Sole 24 Ore – 16 dicembre 2013