I pallottolieri parlamentari girano a pieno ritmo per elaborare una soluzione sulle presidenze delle Camere dopo la rottura di Palazzo Madama nel centrodestra. Rottura che getta una variabile ulteriore sulla ricerca della composizione delle maggioranze di governo possibili.
Gli echi della campagna elettorale sono ancora forti e spingono a misurare le ipotesi di alleanze in base alle convergenze fra le promesse elettorali. Ma l’agenda operativa del prossimo governo, qualunque sarà la tavolozza dei suoi colori, deve partire da un numero: 30 miliardi. Tanto misura la parete da risalire per far andare a braccetto tre sfide: 12,4 servono per lo stop agli aumenti Iva dal 1° gennaio, priorità condivisa da tutte le forze politiche; su altri 12 poggia il rispetto degli obiettivi di riduzione del deficit scritti nei documenti di finanza pubblica, e “vigilati” da un’Europa dove trovare nuovi spazi di flessibilità sarà molto più difficile rispetto al passato recente; e c’è in lista anche il rinnovo dei contratti del pubblico impiego, con un costo netto per lo Stato da almeno due miliardi. Già, perché le intese firmate a febbraio riguardano il 2016-2018, e anche a non voler riavviare subito la macchina sarà indispensabile mettere a bilancio almeno i fondi per le indennità di vacanza contrattuale: senza contare le richieste già arrivate dai sindacati per la conferma di quella quota di aumenti (fino al 24% negli enti locali, al 21% in sanità e così via) che altrimenti cadrebbe dal 1° gennaio.
Insieme alle classiche spese «indifferibili», dalle missioni internazionali ai finanziamenti agli enti pubblici in un pacchetto intorno ai 5 miliardi, i 30 miliardi si profilano insomma come l’agenda «obbligata» per il presidente del consiglio che si vedrà consegnare la campanella da Paolo Gentiloni. E gettano un’ipoteca pesante sulle priorità programmatiche che puntano sui tagli fiscali in area Lega e Forza Italia, reduci dalla rottura di ieri, sulla spesa pubblica per reddito di cittadinanza e investimenti nei Cinque Stelle, e sui ripensamenti previdenziali in modo trasversale.
Il calendario ancora non certifica che il cantiere potrà aspettare ottobre prima di mettersi in moto: il miglioramento dei conti pubblici certificato dall’Istat, con un deficit all’1,9% del Pil anziché al 2,1%, allontana secondo il governo la richiesta europea di manovra correttiva in primavera da 3,5 miliardi, ma le decisioni definitive arriveranno a maggio. «Non vedo allarme sull’Italia per quanto riguarda la stabilità dei mercati», conferma il premier Gentiloni dal consiglio europeo di Bruxelles evocando uno spread che infatti anche ieri ha vissuto l’ennesima giornata di calma piatta (ieri il differenziale è rimasto fermo a 126 punti, mentre il Tesoro ha annunciato 7,5 miliardi di titoli a media e lunga scadenza per l’asta di mercoledì prossimo). Ma è lo stesso Gentiloni a ricordare che la spinta della congiuntura aiuta ( «lo stato dell’economia italiana è incoraggiante», ha detto), ma che «questo non vuol dire che la situazione sia eterna, immutabile». Il tempo scorre, insomma, e lo stallo non aiuta.
Fuori discussione, stando almeno alle dichiarazioni di tutti i partiti, è l’esigenza di affrontare il primo dei tre capitoli «obbligati», cioè lo stop alle clausole di salvaguardia che senza interventi porterebbero all’11,5% l’aliquota oggi al 10% e al 24,2% quella che oggi si ferma al 22. Per farlo servono 12,4 miliardi l’anno prossimo, mentre l’orizzonte triennale coperto dalla manovra chiede 19,1 miliardi sia sul 2020 sia sul 2021, per fermare anche gli aumenti ulteriori messi a «salvaguardia» dei conti di quei due anni. La prima prova sul campo di queste intenzioni si avrà con il Def da chiudere entro aprile, o più probabilmente nelle risoluzioni parlamentari che accompagneranno il Documento tecnico limitato al tendenziale su cui sta lavorando il ministero dell’Economia. Ma sarà la Nota di aggiornamento di settembre a dover inserire nelle tabelle i numeri definitivi che guideranno la manovra.
La cifra chiave intorno a cui ruota il secondo punto in agenda è quella del deficit, che nei programmi italiani presentati a Bruxelles dovrebbe scendere il prossimo anno allo 0,9% del Pil. Tradotto in euro, significa una correzione da 12 miliardi rispetto ai livelli del 2018, a meno di non voler rompere i vincoli europei (e il percorso di riduzione del debito) come per ora ha proposto esplicitamente solo la Lega. E lo stallo non aiuta a ridurre questo tratto di strada, perché l’esperienza mostra che aprile e maggio sono i mesi cruciali per la trattativa con la Commissione sui numeri: l’anno scorso il pressing primaverile di Roma produsse uno “sconto” da 8,5 miliardi che è stato usato dalla legge di bilancio per bloccare i soliti aumenti Iva. Sconto motivato con l’esigenza di portare avanti le riforme senza colpire una crescita ancora sotto al potenziale, e per affrontare le spese «eccezionali» sui migranti: tutte ragioni difficili da rievocare ora.
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 25 marzo 2018