Il conto della Brexit potrebbe pesare per 4 miliardi sul deficit dell’Italia nel biennio 2016-2017. Quanto era emerso già nelle prime ore dopo il voto inglese, quando i centri di ricerca indipendenti avevano rivisto al ribasso le stime di crescita, viene confermato dalle proiezioni dell’Fmi.
La riduzione al ribasso a meno dell’1 per cento della crescita del Pil dell’anno in corso significa che mancano all’appello, rispetto alle valutazioni del governo contenute nel Def, almeno 0,2 punti percentuali: l’effetto di una minor crescita si traduce, per la conseguente riduzione delle entrate, in un maggior deficit di circa 1,6 miliardi. Per il prossimo anno, cruciale in vista della preparazione della manovra economica che il governo dovrà varare entro il 12 ottobre, la situazione è ancora più critica: il governo è fermo con la propria stima di crescita del Pil all’1,4 per cento, il Fondo monetario ieri si è attestato all’1,1 per cento, significa che manca uno 0,3 per cento che si traduce in un maggior deficit di circa 2,4 miliardi. In tutto fanno 4 miliardi che si scaricheranno con tutta probabilità sulla legge di bilancio del prossimo anno già appesantita dalla necessità di disinnescare la clausola di salvaguardia sui conti pubblici per impedire un aumento dell’Iva di due punti che da solo “costa” circa 15 miliardi (0,9 di Pil). Oggi il deficit 2017, se si tiene conto anche dei costi per la sterilizzazione dell’Iva, corre verso il 2,3 per cento: grazie allo sconto della “flessibilità” concessa nel maggio scorso all’Italia potremo evitare di scendere al vecchio target dell’1,4 per cento e fermarci all’1,8 per cento di deficit- Pil, ma bisognerà comunque trovare mezzo punto di Pil, ovvero 8 miliardi per centrare l’obiettivo. Già nel maggio scorso si mettevano in conto un paio di miliardi dovuti alla congiuntura più debole nel 2017 rispetto a quella stimata dal governo, ma oggi dopo Brexit la somma arriva a 4 miliardi e dunque la manovra potrebbe salire fino a 12 miliardi.
Si capisce dunque come negli ultimi giorni la questione del taglio dell’Irpef, più volte cavalcata dal premier Renzi insieme all’annuncio degli 80 euro per le pensioni minime, stia passando in secondo piano. L’effetto Brexit non consentirebbe di recuperare le risorse necessarie che, valutate complessivamente in una decina di miliardi a seconda delle opzioni tecniche, già in precedenza erano condizionate al rispetto dell’equilibrio dei conti pubblici dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan. Diverso l’impegno per la flessibilità in uscita dalla pensione che, se la proposta Nannicini resterà nella sua forma originaria del “prestito”, prevederà un impegno piuttosto ridotto per i conti pubblici.
Naturalmente bisogna considerare che la legge di stabilità cadrà a cavallo del referendum costituzionale. È possibile che le due scadenze non si influenzino l’una con l’altra ma è anche possibile che il governo sia tentato di gettare in campo qualche carta di tipo fiscale. In quel caso le uniche risorse oggetto di valutazione sono i 3 miliardi del taglio Ires alle imprese che potrebbero essere utilizzate per una operazione più ampia di cuneo fiscale.
Repubblica – 13 luglio 2016