Il presidente della Bce Mario Draghi si dice ottimista sull’economia e promuove la contrattazione aziendale delle retribuzioni: è meglio di quella nazionale. Per la prima volta Draghi entra nei meccanismi contrattuali, con parole che, in Italia, paiono un endorsement al decentramento della contrattazione salariale di cui la Fiat di Sergio Marchionne è stata alfiere.
L’esempio della Germania (che negli anni ’90 ha radicalmente reso più flessibile il mercato del lavoro) mostra, secondo i dati della Bce, che durante le crisi le imprese che applicano la contrattazione aziendale “hanno ridotto gli occupati meno di quelle vincolate dalla contrattazione centralizzata”.
Una rivoluzione copernicana per Paesi, come l’Italia, dove la contrattazione collettiva è dominante. Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, non replica sul punto ma si limita a osservare che la previsione di ripresa di Draghi sia “facile dopo sette anni tutti di arretramento”, e che in Italia “la disoccupazione continua ad essere a due cifre (13% contro il 4,7% della Germania, ndr)”. Chi invece replica a Draghi sulla contrattazione è il leader della Uil, Carmelo Barbagallo. “Le considerazioni del presidente della Bce a proposito dei due livelli di contrattazione ci lasciano perplessi”, dice. “La Uil ha definito una proposta di riforma del sistema contrattuale che prevede un sostanziale necessario rafforzamento della contrattazione aziendale, ma non esclude la contrattazione nazionale come riferimento comune a tutti i lavoratori di ogni singola categoria”. I due livelli “non sono e non possono essere in alternativa né in contrapposizione”, spiega Barbagallo. Il paragone Italia-Germania potrebbe spingere a favore della liberalizzazione del lavoro per cui spinge Draghi, se non fosse che fra le altre cose Berlino, accanto al basso costo del lavoro, ha un complesso sistema di tutele, formazione, assistenza alla famiglia, casa, scuola che in Italia appare fantascienza. Draghi non entra nei dettagli. Ha già apprezzato pubblicamente il Jobs Act, guarda con interesse alla riforma della p.a. (l’Italia è in fondo alle classifiche snocciolate da Draghi quanto a facilità del fare impresa). E incoraggia sulle liberalizzazioni, dove (secondo l’istituto Bruno Leoni) l’Italia resta fanalino di coda in Europa quanto ad apertura al mercato. Gli occhi sono puntati dunque sul ddl concorrenza, dove farmacie, notai, ordini professionali promettono battaglia.
L’intervista a Ichino
Roberto Giovannini, La Stampa. Senatore Pietro Ichino, ora nel Partito Democratico, come commenta le parole di Mario Draghi? È vero che le imprese che possono abbassare i salari licenziano di meno?
«C’è una logica stringente nel ragionamento di Draghi. Le strategie neokeynesiane che piacciono alla nostra vecchia sinistra, in una situazione di salari nominali rigidi – rigidità dovuta proprio alla inderogabilità dei contratti nazionali – puntano a ridurre il valore d’acquisto dei salari con l’inflazione, e in questo modo evitare la disoccupazione. Ma noi non disponiamo della leva monetaria, e dunque abbiamo bisogno della flessibilità che ci permette di far fronte alla crisi congiunturale con una flessibilità salariale che consente di evitare di ridurre l’impatto della congiuntura negativa. In altre parole, la possibilità, e la possibilità di contrattare la retribuzione al livello aziendale permette di raggiungere lo stesso risultato di contrasto alla disoccupazione in modo più esplicito».
Dunque, Draghi ha ragione. In che modo si potrebbe adattare questa riflessione al sistema italiano, concretamente?
«Con un nuovo assetto della contrattazione collettiva che preveda la possibilità di deroga rispetto al contratto nazionale di lavoro non soltanto sulla parte normativa ma anche sulla parte salariale, come i minimi tabellari».
Senatore, ma già c’è la norma dell’articolo 8 voluto a suo tempo da Maurizio Sacconi: già si può fare!
«C’è però un problema: è vero che l’articolo 8 dà questa possibilità in linea generale, senza esplicitare che essa si estende anche alla materia retributiva; ma i giudici continuano a interpretare i minimi tabellari come i parametri per l’applicazione dell’art.36 della Costituzione, quello che stabilisce il diritto del lavoratore alla “giusta retribuzione”».
Dunque neanche ci hanno provato, aziende e sindacati, a utilizzare quella norma?
«Nessuno ci ha neanche provato. Anche perché l’accordo interconfederale del 2011 – poi recepito nel “Testo Unico sulla rappresentanza” tra sindacati e Confindustria – esclude la retribuzione dalle materie su cui si può derogare. E in più c’era il rischio che il giudice dicesse che non si può andare sotto il minimo tabellare indicato dal contratto nazionale, perché significherebbe andare sotto il parametro della “giusta retribuzione”».
E quindi? Cosa bisogna fare per seguire l’indicazione del Governatore Draghi, e consentire di poter abbassare liberamente i salari in un contratto aziendale, magari perché si pensa di poter meglio difendere i posti di lavoro?
«Occorre una legge che espliciti questo punto, cioè dica esplicitamente che il contratto collettivo più vicino al luogo di lavoro prevale sul contratto di livello superiore, anche sulla materia della retribuzione. Successivamente, bisogna completare questa manovra con l’introduzione del salario orario minimo, che diventerebbe il vero “minimo dei minimi”, anche per la giustizia del lavoro».
Ansa e La Stampa – 23 maggio 2015