Con la pubblicazione in data 29 luglio 2015 della sentenza della Corte costituzionale n. 178 del 24 giugno 2015 è stato in pratica superato il blocco della contrattazione collettiva disposto per un triennio nel 2010 dall’articolo 9 della legge 122/2010 e successivamente prorogato due volte, ultima delle quali da parte dell’articolo 1, comma 254, della legge 190/2014. È, dunque, formalmente aperta la tornata contrattuale e dal 30 luglio scorso è nuovamente esigibile il rinnovo contrattuale. La sentenza in parola – contrariamente a quella di poco tempo prima sulla indicizzazione delle pensioni – non travolge le norme impugnate fin dall’origine ma dichiara l’illegittimità costituzionale sopravvenuta del perdurare del blocco della contrattazione collettiva. Altro aspetto singolare e inaspettato è che la Corte non ha ritenuto le disposizioni del decreto Tremonti del 2010 in contrasto con gli articoli 2, 3, 35, 36 e 53 della Costituzione (norme indicate dai giudici remittenti) ma “soltanto” con l’articolo 39, comma 1.
Le violazioni riscontrate non riguardano, dunque, diritti inviolabili dell’uomo (articolo 2), l’uguaglianza con il privato (articolo 3), la tutela del lavoro (articolo 35), l’equità della retribuzione (articolo 36) o il sistema tributario (articolo 53) ma “soltanto” la libertà sindacale (articolo 39). Detto questo, è di tutta evidenza che l’ottemperanza al dispositivo della sentenza comporta l’immediata riapertura della tornata contrattuale.
Vediamo allora quale è il percorso per attuare il vincolo disposto della pronuncia. Plausibilmente la decorrenza del rinnovo contrattuale sarà il 1° gennaio 2016 con durata – per la prima volta – triennale. Per i sei restanti mesi del 2015, alla luce dei contenuti della sentenza, non dovrà necessariamente essere aggiornata la indennità di vacanza contrattuale, come senz’altro sarebbe dovuto avvenire qualora la norma costituzionale violata fosse stata l’articolo 36.
Quello che la Corte ha affermato è che «il sacrificio del diritto fondamentale tutelato dall’articolo 39 della Costituzione, proprio per questo, non è più tollerabile», per cui l’ottemperanza alla pronuncia deve avvenire – come detto – con la tempestiva ripresa della negoziazione, come peraltro hanno prontamente richiesto i sindacati.
Tuttavia, che si giunga nel breve periodo alla stipula del rinnovo è estremamente difficile in quanto occorrono alcuni passaggi che fin d’ora appaiono non del tutto semplici e a tutto il mese di ottobre si è svolta una sola riunione, peraltro parecchio interlocutoria, all’Aran. Innanzitutto devono essere formalizzate in un contratto collettivo quadro le aggregazioni degli ex 12 comparti nei nuovi quattro comparti, più quattro separate aree per la dirigenza, fissati dall’articolo 40, comma 2, del Digs 165/2001, novellato dall’articolo 54 del Digs 150/2009.
E qui per la sanità iniziano i problemi. Si ricorda che la norma citala stabilisce che «una apposita sezione contrattuale di un’area dirigenziale riguarda la dirigenza del ruolo sanitario del Servizio sanitario nazionale». Che i medici vogliano una vera e propria area separala è cosa nota e la stessa approvazione della legge delega 124/2015 che all’articolo 11, comma 1, lettera b), punto 2) li esclude dal ruolo unico della dirigenza regionale – ove sono confluiti invece i dirigenti professionali, tecnici e amministrativi – conferma la loro specificità. Si può agevolmente intuire che una cosa è una “area” e un’altra una “apposita sezione”, soprattutto ai fini del calcolo della rappresentatività, mentre per i restanti aspetti è arduo pensare che avere una vera e propria area possa apportare maggiori benefici economici ma anche normativi, visto che il Comitato di settore dovrà necessariamente essere unico.
Ma per realizzare tale specificità occorre una modifica legislativa altrimenti il contratto quadro è immancabilmente blindato e a nulla vale la ricerca di una soluzione alternativa o mediala. In tal senso appare emblematico l’Ordine del giorno approvato dalla Camera il 20 luglio scorso con il quale si chiede l’impegno del Governo «ad avviare le opportune iniziative affinchè venga sottopostaa un accordo fra Aran e le rappresentanze sindacali la proposte di attribuire una autonoma area contrattuale e connesso comparto alla dirigenza medica, veterinaria e sanitaria».
Orbene, aldilà dell’impegno” che ha solo valenza politica, è scontalo che l’obiettivo che si prefiggono i medici ormai da anni possa essere raggiunto esclusivamente con la modifica legislativa alla previsione del decreto 150/2009. E quale occasione migliore del disegno di legge 1577 (divenuto nel frattempo la legge 124/2015) per risolvere veramente il problema e non rinviarlo invece a generiche e improprie “opportune iniziative”?
Strettamente connessa con l’articolazione dei comparti è la questione della rilevazione della rappresentatività, adempimento che come è noto abilita o meno le singole organizzazioni sindacali alla trattativa nazionale. È di tutta evidenza che per molte sigle il raggiungimento della soglia del 5% dipende dall’articolazione dei comparti e potrebbe verificarsi la scomparsa di alcune sigle ovvero la fusione con altri sindacati come già da tempo avvenuto per Snabi, Sinafo e Aupi rispettivamente con Anaoo e Fesmed.
Una volta effettuata la mappatura dei quattro comparti – e stabilito finalmente dove finiscono i medici – si potrà passare alla fase dell’elaborazione delle direttive dei Comitati di Settore (articolo 41 del Dlgs 165/2001 novellato dall’articolo 56 del Dlgs 150/2009) che mai come ora dovranno essere precedute da una direttiva governativa generale, la cosiddetta direttiva-madre.
Sussistono infatti alcuni aspetti, valevoli per tutto il pubblico impiego, che devono preliminarmente trovare una soluzione trasversale e univoca. Innanzitutto la decorrenza del triennio contrattuale e cosa fare per il periodo scoperto relativo al 2015. Inoltre si dovrà quantificare – tramite l’Istat – il valore dell’Ipca, il nuovo indicatore, mai ancora utilizzato, che ha sostituito il Tip e che andrà applicato sulle «voci di carattere stipendiale» e non più sull’ intero monte-salari, come previsto dal Protocollo del 22 gennaio 2009. Il compito di chiarire la modalità di applicazione è certamente della direttiva che adotterà, presumibilmente, il ministro della Funzione pubblica di concerto con il Mef. Riguardo all’aspetto segnalato sembra ipotizzabile che siano considerate «voci di carattere stipendiale» solo quelle ricomprese nel trattamento fondamentale. E qui troviamo la seconda grande problematica per la sanità perché la dirigenza sanitaria gode di una cospicua indennità di esclusività che è qualificala «elemento distinto della retribuzione» (articolo 5 del Ccnl dell’8 giugno 2000, II biennio) e appare evidente che l’entità delle risorse complessivamente a disposizione per il rinnovo vari molto a seconda se detto emolumento venga considerato trattamento fondamentale oppure accessorio. Stesso discorso vale per l’indennità di struttura complessa e la retribuzione variabile aziendale, compresa la maggiorazione per il dipartimento che pero sono espressamente definite «trattamento accessorio».
Passando agli aspetti normativi del rinnovo, si dovrà innanzitutto mettere finalmente mano a tutta una serie di aspetti di dettaglio che avrebbero potuto essere già negoziati un anno fa ma una strategia sindacale – criticabile ma comprensibile – ha fatto ignorare del tutto. La legge di Stabilità per il 2015 aveva infatti affermato che «si da luogo alle procedure contrattuali e negoziali… per la sola parte normativa». Conseguentemente l’Aran aveva convocalo le controparti nel settembre del 2014 per un accordo quadro su alcune materie (congedi parentali a ore, assenze per malattia, ecc) ma le confederazioni se ne sono di fatto disinteressate. Un’altra importante partita della trattativa sulla parte normativa dovrà necessariamente provvedere a disapplicare formalmente tutte le parti dei pregressi contratti collettivi che disciplinavano materie che dopo il decreto 150/2009 sono interdette del tutto alla contrattazione: l’organizzazione degli uffici, la partecipazione sindacale, le prerogative dirigenziali, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali. Ma anche in materie tradizionalmente negoziabili per intero (sanzioni disciplinari, valutazione, mobilità, progressioni economiche) la possibilità di contrattazione è vincolala «negli esclusivi limiti imposti dalle norme di legge». In tal senso è chiarissimo il disposto dell’articolo 40, comma 1, del Dlgs 165/2001, novellato dall’articolo 54 del Dlgs 150/2009. Se – come si potrebbe ipotizzare – i sindacati non si dichiarassero disposti a questa operazione, allora sarebbe pienamente avallata la tesi di chi ritiene tali materie già decadute in sede di etero-integrazione per effetto dello stesso decreto 150 – ma soprattutto per i chiarimenti apportanti dal decreto 141/2011. Anche dall’applicazione della legge 114/2014 conseguono alcuni adeguamenti dei contratti collettivi o nuove materie: si citano, ad esempio, i casi dell’articolo 4 che ha ripubblicizzato la mobilità, dell’articolo 5, comma 1, lettera b) e, forse, dell’articolo 13-bis che, per l’esclusione dei dirigenti, meriterebbe un passaggio contrattuale.
Per quello che concerne le tre aree negoziali della sanità si contano decine e decine di clausole contrattuali che dovranno essere eliminate – in particolare dai contratti delle aree dirigenziali – prime tra tutte quelle sugli incarichi dirigenziali (conferimento, revoca, durata), sul Comitato dei Garanti, sulla mobilità. Dal canto suo il recente decreto delegato 151/2015 nel disporre con l’articolo 24 la possibilità di cessione di ferie e riposi ha rinviato alla contrattazione collettiva la misura, le condizioni e le modalità di detta cessione. Da ultimo potrebbe essere importante che i contratti collettivi si occupino delle ricadute dell’entrata in vigore il prossimo 25 novembre della legge 161/2014, ad esempio definendo cosa rientra nel limite delle 48 ore settimanali o individuando le deroghe al regime dell’articolo 7 soprattutto riguardo ai regimi di reperibilità.
Come si vede, le materie da trattare sono tante e complesse e fanno quasi passare in secondo piano l’aspetto economico che – alla luce dell’entità presumibile dell’aumento – non è forse male che ceda il passo per una volta alla componente normativa.
Stefano Simonetti – Il Sole 24 Ore sanità – 17 novembre 2015