Assenze di docenti e studenti. Lezioni, ma solo sulla carta: per il tribunale le ore di lezione non fatte e gli esami non dati non esistono più.
E se facendo venir meno tre anni di corso «cadessero» specialità e titoli? E se cancellando le ore di lezione dai curricula dei docenti (perchè non le svolsero) venisse meno parte dei requisiti che in questi anni hanno fatto parte integrante di carriere accademiche? Il problema ora, dopo che per anni è stato considerato «invisibile», diventa reale: il collegio (in veste di giudice dell’Esecuzione) nel 2010 ordinò la cancellazione dei documenti che la sentenza del 1997 bollò come falsi e adesso quei libretti (sequestrati all’epoca e conservati in tribunale) sono stati «timbrati e annullati». Questo a distanza di 16 anni perchè nessuno degli Enti interessati a sistemare quel «vuoto» imbarazzante creato da false lezioni e falsi esami parve preoccuparsi delle conseguenze.
ESAMI E FANTASMI. Si torna a parlare di corsi fantasma, l’indagine iniziata nel 1994 e che tre anni dopo si concluse con 14 patteggiamenti davanti al collegio presieduto da Mario Sannite. Per tutti (13 docenti e 1 segretaria) l’accusa era falso ideologico in atto pubblico. All’epoca, quando l’indagine prima e la sentenza di patteggiamento poi fecero emergere le irregolarità, l’Università non prese posizione sostenendo, lo riportano le cronache, di avere avviato accertamenti all’indomani della pronuncia della Suprema Corte, perchè solo allora sorsero «problemi amministrativi». Ma in una nota del marzo 2001 l’allora Magnifico Rettore Elio Mosele sostenne: «l’ordine di cancellazione è di contenuto generico poichè non vengono palesati quali sono gli atti da annullare nè sono forniti gli elementi per poterli individuare». Ma a stabilire nomi, anni e «pagine» di libretti da annullare era stato il Tribunale nel 1997 che, contestualmente alla pronuncia sull’entità dei patteggiamenti, dichiarò «la falsità degli atti indicati nei capi a) b) e c) dell’imputazione» ordinandone la cancellazione. E nel capo di imputazione era tutto specificato.
INDAGINI E SILENZI. Quando nel febbraio del 1996 l’allora sostituto procuratore Mario Giulio Schinaia chiuse le indagini che coinvolgevano 13 professori universitari e la segretaria dell’allora direttore del corso di Chirurgia maxillo facciale l’imbarazzo attraversò i corridoi dell’Università. Già, perchè lo scenario emerso in seguito all’esposto di uno studente dell’epoca e tratteggiato dalle indagini della Guardia di Finanza poneva in un cono d’ombra la validità di esami e lezioni, perchè gli uni e gli altri in molti casi erano esistiti solo sulla carta. Anzi sui libretti. Che quindi non riportavano indicazioni veritiere. L’ammissione alla scuola di Maxillo facciale diretta allora dal professor Paolo Gotte (scomparso nel 2009) era a numero chiuso, il corso della durata di 5 anni è ambito dai laureati in Medicina (in particolare da otorinolaringoiatri, neurochirurghi e da chi si occupa di chirurgia ricostruttiva) poichè la specialità abilita ad occuparsi della chirurgia del volto, delle orecchie, della fronte e del collo. Tornando all’inchiesta, le Fiamme Gialle incrociando spostamenti e presenze registrate scoprirono che in molte occasioni i docenti erano a convegni all’estero o in vacanza nelle date in cui sostenevano gli esami, mentre chi frequentava il corso – nelle medesime date – era in servizio militare o aveva segnato la presenza in altri ospedali oppure, come il medico che nel 1994 denunciò, era al rally di Sanremo a vedere una sua auto gareggiare. Insomma un nutrito gruppo di fantasmi che per tre anni si aggirò nei corridoi.
I PATTEGGIAMENTI, Dopo la richiesta di rinvio a giudizio l’imbarazzo proseguì quando un anno e mezzo dopo i 13 docenti e l’impiegata scelsero di chiudere con un patteggiamento l’intera vicenda che li riguardava e concordarono pene che si attestarono su 10 mesi (comminati a chi aveva falsificato verbali e libretti per tre anni accademici) e, a scalare a seconda che si trattasse di due o un anno di corso, rispettivamente 8 e sei mesi.
Il tribunale ordinò anche venissero cancellati registri, esami di fine anno e attestazioni di frequenza (che indicarono) perchè il presupposto era falso. L’equazione era semplice, l’attuazione forse un po’ meno. Azienda ospedaliera e Università di Verona non si costituirono parte civile, e l’imbarazzo aveva travolto entrambi, mentre l’unico a chiedere i danni (e il tribunale gli riconobbe il diritto di essere risarcito) fu Giovanni Bedeschi, il medico che il giorno dell’esame, superato sulla carta, era in Liguria.
La giustizia seguì il suo corso, la sentenza pronunciata dal collegio presieduto da Mario Sannite divenne definitiva nell’ottobre 1999 e il 20 giugno 2000 venne notificata all’Università. Definitiva la sentenza, definitivo l’ordine di cancellare ma ciò non avvenne. Un parere legale espresso dall’Avvocatura distrettuale dello Stato costituì per l’Ateneo il presupposto per non adempiere immediatamente all’ordine contenuto nella sentenza. E passarono gli anni.
IL «BIANCHETTO». Il dottor Bedeschi (ora assistito da Giovanni Chincarini) all’epoca chiese di dar corso alla sentenza ma poichè nulla si verificò, chiese alla procura di verificare se non vi fosse stato un comportamento omissivo. L’indagine, a carico di persona da individuare, finì in archivio: il gip Rita Caccamo, accogliendo la richiesta del pm Carlo Villani, stabilì tuttavia che spettava al giudice dell’esecuzione imporre il rispetto della sentenza. E si arriva al 2010. Fu il collegio presieduto da Dario Bertezzolo a disporre che il «bianchetto» venisse passato su registri e libretti. Adesso quelle ore di lezione non fatte e gli esami non effettuati non esistono proprio più. Per il tribunale.
Fabiana Marcolini – L’Arena – 30 novembre 2013