IL PRINCIPIO Secondo i giudici la discrezionalità dell’azienda ha come limite il criterio della buona fede previsto dal Codice civile
La discrezionalità del datore di lavoro nel valutare le qualità professionali del dipendente non può spingersi fino al punto di negare un incentivo economico senza un’adeguata motivazione. La Corte di cassazione, con la sentenza 28311 depositata ieri, afferma che l’autonomia dell’imprenditore, espressione della libertà di inziativa economica privata, trova un suo limite nel criterio di buona fede (articolo 1375 del Codice civile). L’istituto bancario ricorrente, per rifiutare a un impiegato un premio previsto dal contratto, aveva fatto ricorso a una «formula di stile estensibile a una serie indifferenziata di situazioni analoghe». Sul no al bonus inoltre non c’era un parere concorde: c’era una nota negativa della Commissione centrale non in linea con un giudizio favorevole del responsabile dell’unità operativa. L’incoerenza frutta al lavoratore oltre 18mila euro pari al beneficio negato per gli anni in questione, che va incidere anche sul trattamento di fine rapporto. Calcolo anche questo contestato dalla banca.
Secondo l’istituto di credito i giudici non avrebbero potuto inteferire nel potere del datore di “pesare” il valore dei dipendenti e tanto meno, in caso di contestazione di questi ultimi, addossare all’imprenditore l’onere di dimostrare le cause ostative al bonus quando, al contrario, sarebbe spettato al dipendente provare di essere stato danneggato da una valutazione viziata.
Sempre secondo il ricorrente male avevano fatto i giudici di merito a non considerare le testimonianze a supporto della “bocciatura”. L’istituto bancario tenta anche di far passare la teoria delle due vie di valutazione: una basata sulle note di qualifica, stilate dal superiore in merito al ruolo svolto dall’impiegato, un’altra fondata sulle potenzialità e dunque su quanto il lavoratore poteva fare di più.
E proprio su questa sarebbe scivolato il dipendente, finito nel mirino della Commissione per non aver sviluppato abbastanza le sue capacità potenziali.
Giustificazioni che la Suprema corte respinge tutte al mittente a cui contesta una motivazione indaguata e contraddittoria. Allo stesso modo viene respinta anche la richiesta di limitare la conseguenza della supposta lacuna datoriale al risarcimento del danno conseguente all’inadempimento, senza riconoscere al dipendente il riconoscimento integrale dell’incentivo.
Quanto chiesto dalla ricorrente – spiegano i giudicipuò andare bene nelle contestazioni per l’avanzamento di carriera. La cosiddetta perdita di chance comporta, infatti, la violazione di un interesse legittimo di incerta quantificazione. Diverso è invece il caso dell’incentivo economico che, in quanto diritto soggettivo perfetto, obbliga a un risarcimento pari alla perdita sopportata.
Il Sole 24 Ore – 19 dicembre 2013