Lorenzo Simoncelli. «Il traffico d’avorio inizia con l’uccisione di innocenti elefanti e termina con la morte di vite umane». Una sentenza lapidaria dell’Elephant Action League, una organizzazione no profit americana, che spiega bene un giro d’affari da 19 miliardi di dollari annui, il quarto al mondo dopo droga, armi e traffico di esseri umani. Una macchina criminale ben oliata in cui convivono corruzione politica, gang, organizzazioni terroristiche, guardacaccia e commercianti.
Un business transnazionale che va dall’Africa all’Asia passando attraverso Europa ed Emirati Arabi Uniti.
Secondo l’Environmental Investigation Agency, ogni anno i bracconieri per impossessarsi delle preziose zanne uccidono circa 35 mila elefanti, 96 al giorno. Una mattanza che dal 1979 a oggi ha ridotto la popolazione in Africa da 1,3 milioni di esemplari a poco più di 400 mila. Di questo passo si rischia l’estinzione della specie entro il 2025. Nei giorni scorsi anche il Wwf ha lanciato l’allarme chiedendo sforzi globali per contrastare il bracconaggio. La Tanzania rappresenta l’epicentro della crisi e il principale snodo per il contrabbando d’avorio. Secondo Traffic, una delle principali Ong che monitora il traffico illegale di animali nel mondo, negli ultimi 5 anni il Paese africano ha perso il 60 per cento degli elefanti. Dal 2009 a oggi 45 tonnellate di avorio hanno raggiunto il mercato nero internazionale dai porti della Tanzania. «Non è ammissibile che un contrabbando di tale dimensione non venga contrastato», critica Steven Broad, direttore di Traffic. Lasciando sottintendere una connivenza delle autorità locali.
Il mercato di Hong Kong
Circa il 70 per cento dell’avorio africano è diretto in Asia, dove viene usato per arredamento e gioielli. Uno status symbol radicato nella classe borghese soprattutto in Cina e Vietnam. Nonostante il traffico d’avorio sia bandito dal 1989, la vendita delle zanne di elefanti morti e l’oro bianco precedentemente lavorato sono ancora legali. Due coperture perfette per i trafficanti per far passare anche l’avorio ottenuto tramite il bracconaggio. Secondo l’ultimo rapporto di Elephant Action League, il principale porto d’entrata per il traffico illegale è Hong Kong, da cui poi viene «legalizzato» e venduto in tutta l’Asia. Il gigante asiatico si sta rendendo conto dell’immagine negativa diffusa a livello globale. Il premier Li Keqiang ha stanziato 10 milioni di dollari per strumenti contro il bracconaggio. E il presidente Xi Jinping, durante l’ultima visita in Gran Bretagna, ha avuto un intenso colloquio con il Principe William sulla tutela degli elefanti in Africa, in cui gli è stato chiesto di boicottare il commercio dell’avorio in Cina.
Il crollo del prezzo
Nell’ultimo anno il prezzo dell’oro bianco si è dimezzato, passando da 2100 dollari al chilo a 1110 (dati Save the Elephants, un’organizzazione con sede in Kenya), tuttavia i margini di profitto per le gang criminali restano ancora alti. Resta poi da risolvere il tema dei trofei di caccia. Ogni anno 18500 «turisti» stranieri si riversano in Africa per cacciare, anche elefanti. Circa 105 mila animali sono stati uccisi e fatti entrare in vari Paesi come trofei venatori. Un giro d’affari enorme se si pensa che dieci giorni di caccia al leone possono costare anche 30 mila dollari.
I gruppi jihadisti
I proventi del traffico illegale d’avorio arrivano fino nelle casse dei gruppi jihadisti che operano in Africa. Su tutti gli Al-Shabaab somali che, secondo un’inchiesta di alcuni anni fa di Elephant Action League finanziano il 40 per cento delle proprie attività terroristiche attraverso l’uccisione degli elefanti nel vicino Kenya. Più recentemente, in Tanzania, le autorità locali hanno arrestato jihadisti che compravano avorio per poi rivenderlo e con i proventi acquistare armi. Un rapporto dell’Interpol e dello United Nation Environmental Programme (Unep) dimostra come il 90 per cento degli elefanti morti in zone di guerra sono uccisi da organizzazioni terroristiche o gruppi ribelli.
Nel corso degli ultimi anni la sicurezza della natura e delle sue specie si è così saldamente legata a quella nazionale e internazionale. Tanto da richiamare l’attenzione di leader e capi di Stato, a cominciare dal probabile futuro presidente degli Stati Uniti d’America, Hillary Clinton, che attraverso la sua fondazione Clinton Global Initiative ha deciso di investire 80 milioni di dollari per provare a fermare il traffico d’avorio nel mondo.
La Stampa – 11 gennaio 2016