Francesco Erbani. E’un paradosso. Ogni anno dalle esangui casse dei Beni culturali escono oltre 10 milioni di euro e finiscono nel portafoglio di Eur s.p.a., la società al 90 per cento del ministero dell’Economia e al 10 del Comune di Roma che gestisce il quartiere omonimo a sud della capitale. È il prezzo dell’affitto degli edifici che ospitano alcuni musei e l’Archivio centrale dello Stato, 110 chilometri di scaffalature in cui è depositata la memoria cartacea del Paese.
Alcuni di questi edifici sono anche offerti in garanzia dei debiti che l’Eur, uno dei fulcri della “parentopoli” allestita dall’allora sindaco Gianni Alemanno, ha contratto per le sue operazioni immobiliari, fra le quali la “Nuvola” di Fuksas, che non si sa quando mai verrà finita, e la Lama, il palazzo a specchio che dovrebbe diventare un albergo e ancora si cerca chi mai potrà gestirlo.
Un pezzo dello Stato, uno dei più immiseriti, si svena per rimpinguare un altro pezzo dello Stato, appartenente quasi interamente al ministero di Pier Carlo Padoan. La vicenda romana è la più eclatante. Ma non è la sola nel dissestato panorama dei nostri beni culturali. Dal 2008, quando aveva già subito tagli mortificanti dal governo Berlusconi, il ministero di Dario Franceschini si trova oggi con un budget ridotto quasi del 30 per cento (da 2 miliardi a 1 miliardo e mezzo: dallo 0,28 per cento del bilancio dello Stato allo 0,19). E nonostante questo paga ogni anno 21 milioni soltanto per affittare le sedi di alcuni dei suoi 100 Archivi. Dove è collocato un materiale che si alimenta costantemente e che potrebbe crescere ancora se si attuerà il proposito di Matteo Renzi di depositare le carte secretate negli ultimi decenni.
L’Archivio centrale dello Stato paga all’Eur 4 milioni e mezzo. Il Museo dell’età preistorica Luigi Pigorini 3 milioni 600 mila. Il Museo delle Arti e delle Tradizioni popolari 1 milione 890 mila. Il Museo dell’Alto Medioevo, a rischio chiusura, 370 mila. Paradosso nel paradosso, i soldi vanno dal ministero per i Beni culturali all’Eur s.p.a. per «la realizzazione di grandi progetti di sviluppo immobiliare e valorizzazione urbanistica», come si legge negli obiettivi della società presieduta da Pierluigi Borghini, ex candidato sindaco del centrodestra, una società che esercita una specie di governatorato su un intero quartiere di Roma e che con soldi pubblici agisce come un operatore privato. Basti ricordare la vicenda del Velodromo, l’opera di Cesare Ligini fatta esplodere con la dinamite per realizzarci torri e palazzine, oppure il progetto di un faraonico acquario con galleria commerciale (entrambe le iniziative furono avviate con Veltroni sindaco). O, ancora, l’idea di un Gran Premio di Formula 1, con i bolidi che avrebbero sfrecciato fra i metafisici edifici di travertino bianco. L’idea, poi decaduta, era caldeggiata da Alemanno e dal suo uomo di fiducia Riccardo Mancini, ex militante di gruppi neofascisti, fino alla primavera del 2013 amministratore delegato dell’Eur (dove ha assunto molti “camerati”), poi finito in galera per tangenti.
La condizione dell’Archivio centrale è esemplare. I 4 milioni e mezzo (3.575.287,96 euro più Iva) gravano su una struttura in preoccupante disagio, con personale sempre più ridotto, avanti nell’età e che fa salti mortali per garantire un servizio essenziale. I depositi sono affetti da umidità e lo spazio è carente. A differenza di un museo, l’Archivio non stacca biglietti e l’unica fonte dalla quale recupera un po’ di quattrini sono le fotocopie. Lo scorso capodanno un migliaio di ragazzi si sono scatenati nei saloni dell’edificio al ritmo della elettro-house. Questo in virtù di una convenzione con una società, la Let’s go che, a pagamento, ha preso in gestione vasti spazi e ha organizzato iniziative che si fa fatica a conciliare con un Archivio: un paio di appuntamenti dell’allora Pdl o una mostra della Range Rover. Si sono sollevate molte proteste. E faceva tristezza vedere fino a che punto si è costretti a snaturare un patrimonio culturale pur di sopravvivere.
La storia si trascina da decenni. In origine l’Archivio centrale pagava all’Eur un canone di “concessione in uso”, in attesa che l’Eur fosse liquidato e il palazzo rientrasse nel patrimonio dello Stato. Il canone era di 62 milioni di lire, poi salito a 200 nel 1987, quando si trasformò in affitto a prezzi di mercato. L’effetto fu lo stratosferico innalzamento a 4 miliardi e 200 milioni. Nel 2000 l’Eur, invece di essere liquidato, in epoca di ubriacatura da privatizzazioni venne trasformato in s.p.a.. Ed eccoci arrivati ai 4 milioni e mezzo di oggi. Che erano oltre 5 milioni fino all’anno scorso, poi ridotti del 15 per cento dalla spending review di Monti.
Sul cosa fare ci si interroga da anni. Un’ipotesi è il trasferimento sia dell’Archivio, sia dei musei: operazione costosa. Un’altra soluzione, meno onerosa per il patrimonio culturale, sarebbe la demanializzazione degli edifici dell’Eur, cioè il passaggio allo Stato. Il che porterebbe l’Italia al livello di civiltà culturale degli altri paesi europei, dove l’Archivio centrale è uno dei luoghi simbolici di una nazione. Ma per questo è necessaria un’iniziativa politica. E poi, di questi tempi, demanializzare sembra una cattiva parola.
Repubblica – 29 aprile 2014