Ritorno a Cottarelli. Ora il governo si aggrappa alla spending review dell’ombroso commissario non solo per costruire la manovra finanziaria del prossimo anno, ma anche per dare linfa allo Sblocca-Italia.
ISOLDI si prendono dove ci sono e soprattutto dove si sprecano. Esclusi (ma bisognerà aspettare come sempre fino all’ultimo minuto) interventi sui grandi capitoli della spesa sociale (sanità, pensioni e pubblico impiego), non resta che il grande calderone della spesa pubblica e in particolare di quella locale, cresciuta a dismisura come effetto collaterale di un federalismo mal concepito. Così il “Programma di razionalizzazione delle partecipare locali” preparato dallo staff del commissario, nominato da Enrico Letta, sarà sul tavolo del Consiglio dei ministri di venerdì.
Una rivincita per l’ex economista del Fondo monetario internazionale in quel di Washington. Lo stesso che quando all’inizio di questo mese aveva espresso il suo disappunto, fino a minacciare la sua uscita dalla scena, per il tentativo (avallato dal governo) di introdurre l’ennesima deroga alla legge Fornero sulle pensioni per far andare in quiescenza gli insegnati della cosiddetta “quota 96”, si beccò dal premier Matteo Renzi non proprio parole di cortesia: «Cottarelli faccia come vuole, la spending review va avanti anche senza di lui». Perché il primato è della politica, non dei tecnici. E invece — questa volta — la politica seguirà i suggerimenti del tecnico.
E allora il bisturi andrà usato con poche cautele nel corpaccione delle ottomila e passa (forse diecimila) aziende municipalizzate, possedute, controllate o anche solo appena partecipate con quote insignificanti dagli enti locali. Un capitalismo barocco nel quale convivono le logiche del mercato e quelle del consenso bieco, dello scambio di favori, delle assunzioni facili da parte dei ras locali, delle clientele politico- sindacali. La quotazione a Piazza Affari, i report delle agenzie di rating, e Parentopoli come racconta la clamorosa storia dell’Atac di Roma, l’azienda del trasporto che ha cumulato perdite per oltre 150 milioni. Un mondo a sé. Che fa di tutto: gestisce autostrade, controlla farmacie, banche di credito cooperativo, aeroporti, casinò, acque termali, fiere, i teatri stabili, metropolitane, orchestre sinfoniche, prosciuttifici, pubblicità. E poi quello che ti aspetti: il trasporto locale, i servizi per la fornitura del gas, dell’acqua, dell’energia; la gestione dei rifiuti. Ma anche quel che non capisci: la promozione del tacchino alla Canzanese. Perché?
Carlo Cottarelli pensa che si possa passare da ottomila aziende a mille nell’arco di un triennio. Con un risparmio a regime, per gli utenti, di 2-3 miliardi di euro. Molte di queste società possono essere chiuse, molte possono essere fuse con altre. La Francia è più grande dell’Italia ma di aziende partecipare ne ha circa un migliaio.
Una su quattro tra le aziende passate al setaccio ha i conti in rosso. Ce ne sono 143 che hanno ormai bruciato il proprio capitale. Il primato spetta alla “Cmv spa” con sede a Venezia: ha un buco patrimoniale di 20,3 milioni di euro. Ma cosa fa la “Cmv”? La missione sociale è spiegata con sfarzo di dettagli nel sito aziendale: «La società ha per oggetto la promozione e lo sviluppo di attività immobiliari ivi comprese l’edificazione in genere, la costruzione, la compravendita, la permuta, la lottizzazione, il comodato, l’affitto, la locazione, anche finanziaria, la conduzione di immobili di proprietà della società o da queste detenuti a qualunque titolo». Peccato che la nostra “Cmv” (al 100 per cento controllata dal Comune) gestisca in realtà il Casinò di Venezia. Che, poi, la Grande Crisi, o una gestione sbagliata, ha trascinato nel baratro finanziario. Il Comune ha cercato di venderlo ai russi e agli americani ma la relativa gara è andata deserta. Ora si sta tentando, con qualche dubbio, la strada della privatizzazione per quanto il commissario cittadino Vittorio Zappalorto, appunto, non escluda un tentativo di rilancio. Mentre si tagliano i posti di lavoro e le retribuzioni.
Si taglia anche alla Fiera di Roma. Adesso. Dopo che è stata costruita (l’affare fu chiuso ai tempi della giunta Veltroni con il Gruppo Lamaro) su un’area soggetta alla subsidenza. Vuol dire che un po’ alla volta il terreno cede. Ma di tracollo c’è anche quello finanziario: un buco di 15,7 milioni. Resta un cattedrale nel deserto, senza una missione, senza identità, senza interesse per potenziali acquirenti che pure sono stati cercati. Un buco di 3,6 milioni ce l’ha anche il Comitato per le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia, ma per fortuna non se ne costituirà un altro a breve. È un mondo a sé quello delle municipalizzate. Ci sono quelle (circa metà delle partecipate comunali) che hanno più membri seduti nei consigli di amministrazione che dipendenti. Altre che non hanno affatto dipendenti, i due terzi delle quali presentano un fatturato inferiore a 100 mila euro. Niente. Scatole vuote: ben tremila hanno meno di sei dipendenti. Un poltronificio: 37 mila seggiole che muovono gli appetiti dei potentati locali, partiti, lobby, sindacati. Il costo pro quota per il settore pubblico — scrive il commissario Cottarelli — è stimabile in circa 450 milioni.
Ma c’è anche un risvolto sociale nell’operazione di ristrutturazione del “capitalismo municipale” che propone Mr. Spending Review: molti degli attuali 500 mila lavoratori diventeranno esuberi. E allora serviranno gli ammortizzatori: cassa integrazione in deroga, propone Cottarelli, per quanto l’intenzione del governo con il Jobs Act sia quella di superarla definitivamente. E poi la costituzione di fondi di solidarietà bilaterali, oppure il contratto di ricollocazione già applicato per gli ultimi esuberi dell’Alitalia-Cai. Sigla, questa, che appare nelle tabelle excel uscite dall’ufficio di Via XX settembre, con perdite che superano il patrimonio. È proprio il settore aereo che non s’addice ai sindaci & company: tutte le società che gestiscono gli aeroporti hanno i conti a terra: peggio di tutti si piazza l’Aeroporto lombardo Gabriele D’Annunzio di Montichiari che conquista il Roe (return on equity, l’indicatore di redditività di un’azienda) stellare di ben – 217,65 per cento. A ciascuno — viene davvero da ricordare — il proprio mestiere.
Repubblica – 27 agosto 2014