di Cristina D’Amico. Gli italiani sono gran mangiatori di carne di maiale, soprattutto di salumi, meno (parecchio meno) di carne bovina, un po’ meno ancora di pollame. Ma come risponde il settore produttivo a queste richieste? Se dovessimo riassumere in minimi termini la storia della produzione di carni in Italia, potremmo dire grossomodo che dal 1961 gli anni Ottanta al primo posto c’era la carne bovina, la cui supremazia, stando ai dati, è finita nel 1987, quando la produzione di carne di maiale ha superato quella di manzo e vitello. Dal 2012-2013 si assiste a una flessione nella produzione sia di bovini sia di maiali, mentre è più stabile il trend della produzione avicola. Lo scorso anno sono stati prodotti poco meno di un milione di tonnellate di carne bovina, circa un milione e mezzo di carne di maiale, 1.261.200 tonnellate di polli e tacchini. Vai al datablog del Corriere
Per quanto riguarda le importazioni, gli ultimi dati segnalano cospicue importazioni di maiale, circa 1.400.000 tonnellate nel 2014, contro le 400 mila tonnellate di carne bovina. Di polli e affini stranieri non abbiamo bisogno perché ci bastano e avanzano i nostri.
E siamo alle esportazioni: oltre le 200 mila tonnellate l’anno di carne suina nel quinquennio 2010-2014; sotto le 200 mila per quella bovina; 170 mila quelle di pollame lo scorso anno.
Queste le cifre, sorprendenti se non si è esperti del settore. Abbiamo chiesto perciò a Laura Sanfrancesco, direttore generale di Unaitalia (che rappresenta oltre il 90% dell’intera filiera dei polli e una fetta cospicua di quella dei suini) e a Francois Tomei, direttore di Assocarni (Associazione nazionale industria e commercio carni e bestiame) di raccontarci dal loro punto di vista l’evoluzione di questo mercato.
La carne bovina è un indicatore di ricchezza
«Non deve stupire che fra gli anni Sessanta e Ottanta, contrariamente a oggi, producessimo più carne bovina che suina — dice Tomei, di Assocarni —. In tutte le economie quando aumenta il reddito pro capite cresce il consumo di carne bovina. Nel dopoguerra il consumo era inesistente perché eravamo poveri; con il boom economico abbiamo cominciato a privilegiarla e l’allevamento, con animali provenienti soprattutto dalla Francia, si è sviluppato in Pianura Padana». Di fatto, il consumo di carne bovina è considerato un indicatore di ricchezza di un Paese. «Lo verifichiamo oggi in economie emergenti, — conferma Tomei — per esempio in Cina, Paese con una tradizione di consumo di carne suina e di pollo, che sta cominciando a importare e produrre carne bovina, o in Russia dove ugualmente sta aumentando l’importazione di questo alimento».
Il sorpasso del maiale e la rivincita dei polli
Poi, a fine anni Ottanta, prevale la produzione di maiale. «Sono aumentati i consumi di salumi, tipici e di qualità» dice Tomei. «Il punto di forza italiano, infatti, — aggiunge Laura Sanfrancesco, di Unaitalia — è il nostro “suino pesante”, animali di quasi 200 chili, ideali per la produzione dei prosciutti».
Perfino questo settore, però, così come quello bovino, ha registrato una contrazione negli ultimi anni. «Per effetto della crisi, i consumi di carne sono globalmente in calo, la produzione è diminuita, abbiamo perso molti stabilimenti — ammette Tomei —. Il settore bovino ne ha sofferto di più, anche per la parcellizzazione dei produttori».
Hanno retto, invece, polli e affini. «Il pollame è la carne anticrisi — sottolinea Sanfrancesco —. In periodi di ristrettezze gli italiani si sono rivolti a fonti di proteine valide ma più economiche e hanno acquisito “confidenza” con le carni avicole perché si è diffusa la consapevolezza che siano carni bianche favorevoli per la salute, “familiari” perché vanno bene a tutte le età, per i bambini come per gli anziani. Di pari passo con la domanda è cresciuta la produzione, tanto che oggi l’Italia è totalmente autosufficiente, anzi produce più di quanto si consumi, circa il 103 % rispetto alla domanda». E margini di miglioramento pare non manchino. «Oggi mangiamo circa 19 kg a testa all’anno di carni avicole, comunque meno della media europea che è sui 23 kg pro capite, — sottolinea Laura Sanfrancesco — ma abbiamo anche i cosiddetti chicken lovers, circa 17 milioni di italiani che scelgono pollame più di tre volte a settimana». Il settore avicolo — spiegano gli esperti — è forte grazie a una filiera «integrata», dalla formulazione dei mangimi fino alla distribuzione: poche imprese, ciascuna con una rete stabile di allevatori.
E veniamo alle importazioni e alle esportazioni. «Il partner numero uno per l’importazione di bovini è la Francia, che ha una filiera consolidata e una distribuzione molto ben organizzata nel nostro Paese. Poi importiamo da Germania, Olanda e più di recente dalla Polonia. I suini, invece, arrivano soprattutto da Germania, Olanda e Danimarca», afferma Tomei. Ma in quanto a sicurezza come la mettiamo? «Tutti i Paesi europei devono applicare regolamenti comunitari a partire dall’allevamento fino alla macellazione — risponde il direttore di Assocarni —. Gli animali sono controllati dai servizi veterinari nel Paese d’origine, poi dai Pif (Posti di ispezione frontaliera) all’arrivo in Italia. In più nel nostro Paese ci sono i controlli degli Uvac (Uffici veterinari per gli adempimenti degli obblighi comunitari), presenti in ogni regione. Abbiamo ben 5 mila veterinari sul territorio, la Francia ad esempio ne ha solo 500».
In quanto alle esportazioni, quelle di carne suina riguardano perlopiù i salumi. «Diamo alle carni un valore aggiunto che altri non sanno dare», spiega Laura Sanfrancesco. Prosciutti e salami Italiani, che non costano poco, vanno in Paesi che possono permetterseli: Usa, Giappone, Cina, Corea. «L’embargo europeo nei confronti della Russia sta impedendo di sfruttare quel mercato in crescita. Tra l’altro — racconta Tomei — favorisce il cosiddetto italian sounding: ristoranti italiani in quel Paese comprano prodotti taroccati, finti italiani, per soddisfare la domanda».
«Per l’export bovino, invece, — prosegue Tomei — c’è una nicchia di bresaola, ma è ripreso anche quello di carni. Non deve stupire questo gioco di import-export: importiamo tagli nobili, meno richiesti dal consumo domestico ma sempre cercati dalla ristorazione ed esportiamo tagli di carne meno pregiati».
Quando la mucca impazzì
Nella storia della produzione e del consumo delle carni in Italia ci sono stati due momenti davvero neri. Alla fine degli anni Novanta esplose l’emergenza «morbo della mucca», mentre nei primi anni 2000 scattò l’allarme «influenza aviaria».
Un minimo di spiegazione si impone. «Mucca pazza» è la definizione comune delle Bse, encefalopatia spongiforme bovina, malattia caratterizzata da una degenerazione del tessuto cerebrale e causata da una proteina anomala, il prione. La Bse fu diagnosticata per la prima volta in Gran Bretagna nel 1986, ma fu dal 1996 che si diffuse la paura del contagio all’uomo attraverso le carni contaminate, quando nel Regno Unito vennero diagnosticati i primi casi di una variante della encefalopatia spongiforme umana (la malattia di Creuzfeldt-Jakob). Nel 1994, peraltro, l’Europa aveva già messo al bando i mangimi a base di farine animali, sospettate di essere veicolo della malattia bovina.
«La paura fu forte, le previsioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sui possibili contagi umani erano catastrofiche. Per fortuna la realtà non fu così tragica e in Italia non abbiamo avuto nemmeno un caso — ricorda Tomei —. Sul fronte degli animali vennero introdotti test sulle possibilità di sviluppare la Bse e nel caso di positività veniva distrutta tutta la discendenza del bovino; un regolamento comunitario impose la distruzione delle parti di animale rischiose, come l’intestino, il cervello, la colonna vertebrale, che andavano incenerite». Molti ricorderanno che fu «bloccata» la bistecca Fiorentina (il divieto di consumo cadrà alle soglie del 2006).
«Nel 2001 fu un disastro totale, crollo dei consumi e crollo produttivo — prosegue il direttore di Assocarni —. Le misure draconiane introdotte, però, ci hanno consentito di debellare la malattia bovina e di ritrovare la fiducia dei consumatori. Dal 2013 l’Italia, insieme al Giappone, è stata dichiarata “a rischio trascurabile” di Bse animale, praticamente indenne, come lo sono oggi molti altri Paesi europei. Dal luglio 2015 possiamo non distruggere le parti che erano considerate pericolose, fatta eccezione per il cervello».
Quando i polli rischiarono per l’influenza
Nel 2005 a far tremare il mercato avicolo furono i timori per il diffondersi dell’influenza aviaria, malattia virale che colpisce volatili selvatici e domestici. L’uomo può infettarsi per contatto diretto con gli animali e le loro deiezioni (i primi casi emersero in Asia tra il 1996 e il 1997), ma non se mangia carni avicole, perché il virus viene completamente distrutto con la cottura.
«I consumi però si bloccarono completamente e il settore finì in ginocchio — riferisce Laura Sanfrancesco —. Fu un’influenza “mediatica”, perché non si verificò un solo caso italiano. La crisi per fortuna durò tre o quattro mesi, poi la domanda riprese. E questa vicenda ci “vaccinò”: capimmo che c’erano stati errori di comunicazione e oggi il settore sarebbe in grado di fare rete più prontamente per rispondere ad ogni esigenza di sicurezza e chiarezza».
Senza dubbio, una reazione pronta, che ha evitato equivoci e disastri economici, è arrivata a gennaio di quest’anno, quando fu battezzata impropriamente come «suina» l’influenza che metteva a letto gli italiani. «Si tratta della solita malattia stagionale, che non ha alcun collegamento con la carne di maiale», comunicarono immediatamente le nostre autorità sanitarie. E per essere ancora più chiari aggiunsero: «I nostri suini godono di ottima salute».
Il Corriere della Sera – 27 ottobre 2015