«Dal punto di vista concettuale non c’è poi molta differenza tra l’ignoto che ci “sconvolge” la vita quotidiana (una foratura o le chiavi che cadono in un tombino) e quello che si deve fronteggiare durante le crisi internazionali, dagli attacchi terroristici alle epidemie», spiega Maurizio Barbeschi, che all’Organizzazione mondiale della sanità si occupa di health security interface.
«Faccio dialogare medici e poliziotti quando c’è da arginare un’emergenza». Barbeschi ha un curriculum multidisciplinare e una vita professionale avventurosa. Laurea in chimica teorica, servizio militare nel reparto speciale che si occupa di armi non convenzionali, qualche anno in una delle Sette sorelle del petrolio poi un master in management al Mit di Boston. Approdato all’Oms, è stato in Iraq nel 2003 per condurre ispezioni sull’arsenale chimico di Saddam, in Siria nel 2013 quando è stato usato il gas sarin sui civili, in Nigeria l’anno successivo quando è esplosa l’epidemia di Ebola. Ha schivato i colpi di kalashnikov delle milizie anti- Assad, le autobombe di quello che sarebbe di lì a poco diventato l’Is, ha rischiato il contagio di virus letali. Ha affrontato tanti tipi di ignoto, trovando ogni volta una soluzione creativa. E ora ha deciso di raccontare le sue esperienze in un libro, scritto a quattro mani con il giornalista Paolo Mastrolilli. «Quello che non conosciamo ci spaventa, ma può sempre essere usato come una opportunità. È successo a me durante le mie missioni internazionali, ma vale anche per chi ha a che fare con gli imprevisti nella vita di tutti i giorni», spiega Barbeschi. Nasce così Fare i conti con l’ignoto, metà racconto e metà manuale. «In effetti, finora l’ignoto è stato affrontato separatamente in teologia, matematica, economia, mancava una visione globale».
Come tutte le scienze, anche quella dell’ignoto comincia da una classificazione. Perché non tutte le cose che non conosciamo non le conosciamo allo stesso modo. La prima categoria, secondo Barbeschi è l’ignoto-ignoto: quello che non può essere previsto e quindi pianificato. «Nel 2013 a Damasco », racconta il funzionario Oms, «ci trovammo di fronte a due forme di ignoto-ignoto: un attacco sui civili col gas sarin che fece migliaia di morti e un agguato a colpi di kalashnikov al nostro convoglio. Entrambi i fatti imprevedibili in base alle conoscenze che avevamo». C’è poi l’ignoto-conosciuto. «Sembra un ossimoro», ammette Barbeschi, «ma la contraddizione è solo apparente, come dimostrano le nostre ispezioni in Iraq nel 2003. Cercare le armi di distruzione di massa alla vigilia dell’invasione era affrontare l’ignoto, ma nel quadro definito di una missione dell’Onu». Insomma, ciò che potrà accaderci domani o fra una settimana è ignoto, ma la cornice di eventuali sviluppi inattesi è conosciuta.
L’epidemia di Ebola che ha colpito la Nigeria nel 2014 è invece un caso di ignoto-dinamico. Di fronte all’emergenza l’Oms mise in campo tutte le misure adottate con successo in casi analoghi. Nessuno poteva immaginare che un malato, Patrick Sawyer, avesse viaggiato e persino corrotto i medici locali con lo scopo di diffondere il contagio, trasformando “dinamicamente” un ignoto-conosciuto in un ignoto-ignoto molto più pericoloso. C’è infine l’ignoto emotivo-relazionale, quello che spaventa alcuni mentre non suscita preoccupazione in altri. «La strage dei tacchini a Natale è un imprevisto solo per i tacchini stessi, mentre macellai e commensali celebrano una feste largamente prevista e preparata».
Per ogni tipologia, dalle crisi internazionali al capoufficio che fa mobbing, c’è una strategia. «Il primo messaggio del libro», conclude Barbeschi, «è che di fronte a un imprevisto bisogna chiedersi: cosa devo imparare da questa situazione? Se ci si limita a cambiare lavoro, la stessa cosa può ricapitare con i nuovi colleghi. Invece ci si deve domandare se non c’è qualcosa da modificare nei nostri comportamenti ». Altro consiglio: collaborare con chi ha competenze diverse per superare l’ignoto emotivo-relazionale. Infine: imparare a riconoscere l’ignoto, ascoltando le antenne che ci fanno capire quando sta per succederci qualcosa, quell’attimo in cui ci stanno cadendo le chiavi dell’auto nel tombino.
E approfittarne: chissà che, come in Sliding doors, andare in autobus anziché in macchina non ci apra nuove, impreviste, possibilità.
Repubblica – 1 agosto 2016