I 23,1 miliardi di aumenti Iva messi a tutela del 2020 dai correttivi alla manovra concordati con la Ue centrano il nuovo record nella ricca storia italiana delle clausole di salvaguardia. Ma non sono l’unica incognita che pende sulle prospettive della finanza pubblica prossima ventura, appese a una stima di crescita che anche dopo la revisione punta all’1,1% per il 2020, a 600 milioni di entrata da una web tax ancora tutta da costruire dopo il tentativo fallito dell’anno scorso e ad altre entrate incerte come quelle da dismissioni (150 milioni nel 2020 dopo i 950 messi a bilancio per il 2019).
Con questi interrogativi, e con i 2-3 miliardi di rifinanziamenti per spese obbligatorie che accompagnano ogni manovra, è facile prevedere che la legge di bilancio del prossimo autunno partirà con un’ipoteca vicina ai 30 miliardi di euro, da trovare ancor prima di mettere in programma qualsiasi misura discrezionale di spesa. Sempre che non torni in campo anche la clausola aggiuntiva che blocca 2 miliardi per il prossimo anno, presi soprattutto dai programmi di spesa del Mef (1,2 miliardi) tra i fondi da ripartire e quelli alla voce «competitività e sviluppo delle imprese». Una sfida di queste dimensioni andrà gestita da subito, nei primi mesi del nuovo anno, per non trasformare la manovra 2020 in una scalata ancora più impervia di quella 2019 che si sta chiudendo di fatto al Senato. La prova del nove arriva proprio dall’anno che sta per finire, e che rappresenta il precedente più vicino anche in fatto di valori in gioco. Le clausole originariamente messe in calendario per il 2018 valevano pochi spiccioli meno di 22 miliardi, ma la manovra se ne è trovati “solo” 12,4 perché il loro superamento era stato avviato fin dall’autunno del 2015, quando la legge di stabilità dell’epoca aveva accantonato i primi 2,4 miliardi per disattivarle. Altri 7,2 sono arrivati dalle manovre e dai collegati fiscali degli anni successivi, abbassando un po’ l’ormai tradizionale scalata d’autunno dei conti pubblici. E lo stesso era accaduto per il 2017.
Non solo. Le clausole degli anni scorsi servivano a portare la prospettiva dei saldi italiani verso il pareggio di bilancio. Nel nuovo quadro, invece, nonostante i super-aumenti Iva il deficit strutturale scende di poco, dall’1,3% del 2019 (due decimali sopra rispetto a quest’anno) all’1% del 2021, tenendosi lontano dal pareggio. E non è un dettaglio contabile.
Il “pareggio sulla carta” messo in programma negli anni scorsi ha permesso infatti ai vari governi di finanziare in deficit la parte maggioritaria dei mancati aumenti Iva, contrattando con Bruxelles margini di “flessibilità”. I conti riassunti ieri dal Centro studi Confindustria mostrano che il governo Renzi ha usato il deficit per disinnescare il 100% delle clausole Iva 2015, l’86% del rischio aumenti 2016 e di nuovo il 100% delle salvaguardie 2017. Quelle di quest’anno, con più mosse di Renzi prima e Gentiloni poi, sono state evitate per il 56% in deficit e per il 44% con coperture alternative. Ma se il saldo strutturale resta lontano dal pareggio, l’idea di avviare con la Ue una nuova trattativa per spuntare più disavanzo si complica. Perché il terreno è coperto da spese già messe a bilancio, a partire da quella per quota 100 che nel 2020 raddoppia a 8 miliardi dai 4 del 2019.
L’altra incognita arriva dalla crescita, che nel nuovo quadro macro scritto dal governo non sembra soffrire troppo degli aumenti Iva in programma. Nonostante i 23 miliardi di Iva in più, nel 2020 i consumi privati dovrebbero crescere dello 0,8%, proprio come l’anno prossimo quando l’Iva sarà piatta. E nel 2021, quando i miliardi di Iva in più diventano 29, il ritmo dei consumi aumenta all’1%. C’è anche questa previsione alla base della crescita dell’1,1% nel 2020 e dell’1% nel 2021, un ritmo da mantenere per non dover rifare per l’ennesima volta i conti.
Potrebbe interessarti anche
Scrivi un commento