All’inizio, era il 1928, c’erano il pane scuro, i fagioli, lo strutto, la legna da ardere, l’inchiostro nero, i pennini, il carbon coke, la tela per biancheria fine chiamata “Madapolam”, l’olio di fegato di merluzzo e la tintura di iodio. Il paniere dell’Italia povera e fascista che però iniziava a contarsi e a censirsi, tra l’ossessione demografica del Duce, l’ansia modernista dei Futuristi, l’Aquila Littoria incisa sui treni e l’obbligo autarchico di consumi nostrani. Filati delle filande comasche e liquori nazionali, soda solvay e farina di lino.
C’era poco in quei panieri del nascente Istat, assemblati ogni anno dal 1928 a oggi per calcolare il “prezzo medio della vita” (fino al 1953 continuava a sopravvivere l’olio di ricino, lugubre ricordo di torture), cestini simbolici diventati nel tempo uno straordinario archivio di memorie quotidiane, di vestigia private, di narrazioni domestiche, la storia minima che si trasforma in Storia.
Tutto entra in quelle immaginarie sporte, ogni epoca ha i suoi prodotti simbolo, alcuni restano, altri vengono espulsi perché triturati dal progresso e dal disamore: il pane e il burro, eternamente presenti, i francobolli e i frigoriferi, la Lambretta e la Vespa, il lardo e i filati cucirini, le lamette da barba e i liquori dopo-pasto, come il Fernet Branca, amaro di china e di genziana, già negli anni Venti una gloria nazionale.
I“panieri” infatti hanno più o meno la stessa età dell’Istat, il nostro istituto nazionale di statistica che il 9 luglio festeggerà i suoi novant’anni dalla nascita. Quei cestini oggi sono digitalizzati dal primo all’ultimo, ma a scoperchiarli a uno a uno si viene comunque sommersi da montagne di oggetti che raccontano passato e presente. La fame, la guerra, la ricchezza, l’istruzione, la protesta, i nostri nonni, i nostri genitori, i baby boomers e i millennials, gli anni Settanta quando l’Italia iniziò a rimpinzarsi di surgelati, gli Ottanta, quando nell’elenco del paniere approdarono gli aperitivi al bar e gli analcolici, simboli di quel mondo “da bere” che poi naufragherà con Tangentopoli.
Un archivio sconfinato, che per i suoi novant’anni l’Istat sta rendendo via via più fruibile al pubblico, ma dove memoria e contemporaneità si intrecciano. Perché è ancora qui, nel severo e massiccio palazzo razionalista di via Cesare Balbo a Roma (oggi diretto da Giorgio Alleva), sede che lo stesso Mussolini fece costruire per l’Istat nel 1931, che il paniere viene tutt’oggi assemblato, da un team di oltre trenta ricercatori coordinati da Federico Polidoro, responsabile del servizio “Prezzi al consumo”. Una facciata di marmi e bassorilievi classici, il primo presidente a insediarsi fu Corrado Gini, viene nominato dal Duce e realizza in tre anni tre censimenti, l’industria, l’agricoltura e la popolazione. Il fascismo vuole sapere quanti sono, chi sono e come vivono gli italiani, come in ogni dittatura la statistica serve al controllo, e così il nuovo censimento del 1936 diventa propaganda affinché le coppie diano figli alla Patria. “Il numero è potenza” dicono i filmati del Luce, che invitano contadini e cittadini a farsi contare. L’autarchia dei consumi è al massimo, si esaltano le virtù del cotone “Sniafiocco”, l’acqua di colonia si chiama “Etrusca” e i vestiti da uomo “Caesar”, come ricorda la storica Emanuela Scarpellini nel bel saggio L’Italia dei consumi. Dalla Belle époque al nuovo millennio (Laterza).
Eppure è proprio in questi anni che nascono i consumatori moderni, dice Scarpellini, almeno nelle fasce alte. Vento di innovazione spazzato via però dalle disastrose campagne d’Africa e dalla Seconda guerra mondiale, che riportano l’Italia nella povertà più estrema. Spiega Federico Polidoro, insieme a Maria Moscufo e Gloria De Martinis, ricercatrici del settore prezzi: «Il paniere è uno strumento statistico che serve a calcolare l’inflazione, ed è formato da una serie di categorie, dal 1999 sono diventate dodici, nelle quali entrano ed escono i prodotti di maggiore uso collettivo, di cui vengono analizzati i prezzi». E di conseguenza il costo della vita, esattamente come quando iniziarono le prime rilevazioni nel 1928, ma le “voci” allora erano soltanto cinque e i prodotti, fino al 1953, non più di sessanta.
Ma a ogni entrata e uscita di un oggetto c’è un pezzo di società che si interroga su di sé, segnala Emanuela Scarpellini. Perché nello scoprire che tra le novecento “cose e servizi” del 2016 scompare la sottoveste ma arriva il latte di soia, vanno in pensione le cuccette dei treni ma si impongono i tatuaggi, c’è il «racconto della nostra trasformazione quotidiana », di quanto velocemente, dice Scarpellini, «sia cambiata dagli anni del miracolo economico in poi. Per oltre un secolo i nostri nonni e bisnonni avevano fatto più o meno la stessa vita, mangiato cereali, legumi, quasi mai la carne e i dolci nelle feste, risparmiato sullo zucchero e sul caffè, sulla carta e sull’inchiostro, con le giornate cadenzate dalle albe e dai tramonti, fabbricandosi i vestiti con le vecchie Singer. Poi il mondo si è messo a correre, tra il 1958 e il 1970 il tenore economico migliora per tutti, in questi anni nelle case entrano la tv, l’aspirapolvere, la cucina elettrica, lo scaldabagno, il frigorifero, e dunque il cibo fresco». E i panieri dell’Istat, ricorda la storica Scarpellini, «registrano il boom, seppure con qualche scarto cronologico, così come la rivoluzione dei consumi che ne sarebbe seguita, quando per la prima volta il cibo smette di essere in testa alle voci di spesa delle famiglie a favore di altri beni». Carosello cambia le giornate dei bambini nel 1957, Calimero “pulcino nero” sbiancato dai prodotti della Mira Lanza diventa un tormentone che dura dal 1963 per oltre venti anni, mentre le case si riempiono di pannelli di formica e di mobili di legno truciolato, come testimonia il paniere del 1977.
Ed è infatti aprendo quelle sporte, entrando in quelle immaginarie cucine o drogherie, osservando la cartella degli scolari, che la storia d’Italia ci appare intimamente legata alla quotidianità delle persone, come negli Annales di Marc Bloch. Dalla brillantina ai Led, dalle sigarette Alfa alle Nazionali, dal burro che soppianta lo strutto, dai vestiti di “popeline” al meccano, dalle auto alle biciclette, dalla polenta ai biscotti senza glutine, fino alla domestica a tempo pieno che si trasforma in colf a ore, l’elenco appare sempre più mutevole. Un lavoro, come racconta ancora Federico Polidoro dell’Istat, che dietro ha l’apporto di grandi istituti di ricerca sui consumi, associazioni di categoria, uffici statistici dei comuni, ma anche un esercito di “cacciatori” di novità, che rilevano fisicamente che cosa gli italiani mangiano, bevono, indossano, guardano, leggono, quanti pc compriamo, quanti smartphone abbiamo in casa. Tutti dati che poi negli uffici di via Balbo vengono elaborati per comporre il virtuale cesto di vimini ormai pubblicato con cadenza annuale. Così nel 1996 entrano le mozzarelle di bufala, nel 1999 Internet, nel 2009 la chiavetta Usb e nel 2011 il fast food etnico. Segno del trionfo del kebab, ma anche di una contaminazione culturale forse finalmente raggiunta.
Repubblica – 3 luglio 2016