Roberto La Pira. Il varo della nuova legge per la limitazione dello spreco ha rilanciato il discorso sul ruolo e l’importanza del termine minimo di conservazione da non confondere con la data di scadenza. Secondo le stime più accreditate l’8% circa della spesa alimentare delle famiglie italiane finisce nel cestino dei rifiuti, e in alcuni casi questo gesto potrebbe essere evitato perché si tratta di alimenti ancora commestibili. Per limitare questo spreco bisogna spiegare in dettaglio la differenza tra le due date.
Il principio da seguire è che la data di scadenza riportata sulle confezioni va rispettata. Questa data indica l’intervallo di tempo ed è stabilito dal produttore che deve garantire il mantenimento delle caratteristiche sensoriali e la presenza di un numero di batteri al di sotto dei limiti ritenuti pericolosi.
Nel cibo fresco con il passare del tempo si innescano alterazioni chimiche e si registra una crescita microbica in grado di cambiare le caratteristiche nutrizionali e organolettiche. Il fenomeno riguarda tutti i prodotti anche se si avverte di meno negli alimenti secchi, come la pasta o il riso. In generale solo in alcuni casi però questa perdita del gusto associato all’incremento della carica microbica rappresenta un pericolo vero per la salute.
Per capire quando è meglio evitare il consumo di un alimento non basta valutarne il sapore, l’odore e la fragranza. Il cibo può essere contaminato da batteri patogeni come: Listeria, Campylobacter, Stafilococco o Salmonella che non modificano le caratteristiche sensoriali e fisiche, ma risultano ugualmente molto pericolosi per le persone anziane, le donne in stato di gravidanza e i bambini, soprattutto se vengono consumati crudi o poco cotti. Questi microrganismi patogeni possono essere presenti in quantità molto basse all’inizio del periodo di conservazione, e aumentare di numero, fino a diventare pericolosi, man mano che ci si avvicina, e si supera, la data di scadenza.
Il tema è complesso soprattutto quando si parla di alimenti freschi da conservare a basse temperature. In questi casi la durata riportata sulla confezione è correlata al rispetto della catena del freddo sia durante la commercializzazione, sia quando il cibo viene conservato nel frigorifero di casa. Bisogna considerare che a volte la temperatura dei frigoriferi dei supermercati non è corretta, ma il problema maggiore riguarda in realtà quelli domestici che sono tarati in un intervallo tra 6 e 10°C, con punte di 12°C in prossimità della portiera, dove si trovano latte e uova. Al riguardo segnaliamo un nostro articolo sulla temperatura dei frigoriferi domestici che raramente rispettano i +4°C.
Dopo questa necessaria premessa, esaminiamo le singole categorie merceologiche cominciando dagli alimenti per i quali il legislatore non ha previsto l’obbligo di indicare la scadenza in etichetta.
Per il pesce fresco e la carne fresca la legge non prevede una scadenza. Ci sono però catene di supermercati che vendono questi alimenti confezionati in vaschette di polistirolo con un’etichetta, dove è indicata sia la data di confezionamento, sia quella di scadenza. Stabilire regole rigide è difficile perché l’intervallo varia in funzione del tipo di pesce o di carne, della qualità microbiologica iniziale, del sistema di confezionamento (vedi tabella) e di altri fattori. Per esempio nel settore ittico si passa da un intervallo massimo di due giorni dopo la cattura (pesce azzurro), fino a 4-5 per orate e branzini.
Anche per la carne non c’è uniformità: se gli hamburger e la carne trita preparata dal macellaio vanno consumati entro 48 ore, l’intervallo sale a 4-5 giorni per i tagli di manzo di medie dimensioni e arriva a 7-10 per le bistecche o altri tagli piccoli confezionati in atmosfera modificata. Per questo motivo è molto importante leggere attentamente le etichette (quando ci sono). Nella tabella che vi proponiamo abbiamo indicato la scadenza orientativa di prodotti freschi
Continua a leggere sul Fatto alimentare
12 agosto 2016