Laddove intenda denunciare in giudizio un asserito demansionamento, il lavoratore ha l’onere di allegare circostanze significative dell’inadempimento datoriale, il che richiede sia la descrizione delle mansioni da ultimo assegnate, sia il raffronto tra queste e i compiti svolti prima del presunto demansionamento. Rispetto a tali fatti, sarà poi il datore di lavoro convenuto in giudizio a dover prendere posizione in maniera circostanziata, senza limitarsi ad una generica contestazione di quanto affermato dal lavoratore.
Sulla base di tale argomento, la Corte di cassazione, con la pronuncia n. 19044/15, ha ritenuto non provato il demansionamento di un dipendente, il quale, dopo essere stato trasferito dal “servizio contenzioso” al “servizio legale e affari generali” della società datrice di lavoro, aveva lamentato una generica “diminuzione di caratura” della propria posizione e delle mansioni affidategli, omettendo tuttavia di descrivere il contenuto delle nuove mansioni e di raffrontare queste ultime con quelle in precedenza attribuitegli.
È interessante notare come la suddetta sentenza sembri porsi in parziale contrasto con quanto affermato dagli stessi giudici di legittimità solo poco tempo prima. Infatti, con sentenza 18223 del 17 settembre 2015, la Corte aveva evidenziato come l’onere della prova della rispondenza delle mansioni rispetto alla qualifica posseduta gravasse sul datore di lavoro. In questo senso, e diversamente dalla pronuncia in commento, sarebbe sufficiente per il lavoratore dedurre un demansionamento riconducibile ad un inesatto adempimento, da parte del datore, dell’obbligo di cui all’articolo 2103 del codice civile (che, nella formulazione precedente agli interventi del Jobs Act, limitava lo ius variandi del datore di lavoro alle mansioni equivalenti o superiori a quelle per cui il dipendente era stato assunto), gravando invece sul datore l’onere di dar prova del proprio corretto adempimento, ossia della mancanza in concreto di qualsivoglia dequalificazione o demansionamento, ovvero che quest’ultima fosse dovuta a causa a lui non imputabile.
Il tema è già stato oggetto di ampio dibattito negli annali della giurisprudenza, generando un non raro caso di conflitto anche a livello di Sezioni Unite della Cassazione.
Da un lato, la pronuncia a Sezioni Unite n. 4766 del 6 marzo 2006, secondo cui, anche in materia di dequalificazione, deve applicarsi il principio generale secondo cui in tema di prova dell’inadempimento di una obbligazione, il creditore (nella specie, il lavoratore) deve solo provare la fonte negoziale o legale del suo diritto, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell’inadempimento della controparte, mentre il debitore (nella specie, il datore) convenuto è gravato dell’onere della prova del fatto estintivo dell’altrui pretesa.
Dall’altro, le Sezioni Unite n. 5454 del 6 marzo 2009 (richiamata non a caso dalla stessa pronuncia 19044 in commento), secondo cui l’onere della prova grava in misura paritaria sul lavoratore e sul datore, dovendo ciascuno per la propria parte dar prova dei fatti allegati.
Da qui l’esigenza da ultimo espressa dai giudici di legittimità di imporre al lavoratore una per quanto possibile analitica descrizione delle proprie mansioni prima e dopo l’asserito demansionamento, nonché la comparazione tra di esse; solo a questo punto scatta per il datore di lavoro il corrispondente obbligo di prendere posizione specifica su quanto affermato dal lavoratore. Tale ultimo orientamento pare assolutamente condivisibile in un’ottica di riequilibrio delle rispettive posizioni processuali, come già da tempo fatto in materia di onere di repêchage, anche in chiave “deflattiva” di un contenzioso per certi versi spesso abusato.
Tale principio, peraltro, sembra porsi in linea con la modifica dell’articolo 2103 del codice civile operata dal Dlgs 81/15, che ha notevolmente aumentato la flessibilità in tema di modifica delle mansioni.
Massimiliano Biolchini e Lorenzo Zanotti – Il Sole 24 Ore – 30 ottobre 2015