Roberto Mania. Anticipo della digital tax al 2016. È una delle ipotesi a cui stanno lavorando i tecnici del governo in vista della manovra finanziaria da 27 miliardi che sarà varata entro la prima metà di ottobre. Servono nuove risorse dopo che i risparmi attesi dall’operazione spending review sono calati dai 10 miliardi inizialmente previsti nel Documento di economia e finanza (Def) del mese di aprile ai 6-7 miliardi, ma anche meno, della nota di aggiornamento dello stesso Def di queste ultime settimane.
Per questo sono forti le pressioni all’interno dell’esecutivo perché venga anticipata di un anno (dal 2017 al 2016) la norma che imporrà alle multinazionali del web (da Google a Facebook) di versare le imposte sui profitti realizzati in Italia. Nelle casse dello Stato arriverebbero a regime dai due ai tre miliardi di euro. Andrebbero però velocizzate tutte le procedure relative all’accertamento e ai processi informatici che permetteranno agli intermediari finanziari di applicare la ritenuta alla fonte. Altrimenti si rischierebbe un clamoroso flop. Partita non semplice.
A complicare il cammino (e la ricerca delle coperture) della legge di Stabilità c’è anche la frenata di Bruxelles sulla cosiddetta clausola di flessibilità legata all’emergenza migranti (circa 3,3 miliardi) sulla quale puntava il governo per finanziare in deficit una parte delle misure espansive. E per il governo si sta profilando un dilemma: prorogare la decontribuzione per le assunzioni a tempo indeterminato (8.060 euro di sconto per tre anni) che ha favorito molto, secondo i dati dell’Inps, il ricorso ai contratti standard e a ridurre l’area della precarietà; oppure anticipare parzialmente già nel 2016 una riduzione dell’Ires, cioè la tassa che versano le società di capitale. Nell’intervista a Repubblica di ieri il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha confermato l’intervento sull’Ires nel 2017 (l’Irpef, secondo il programma del governo, sarà tagliata nel 2018) e ha annunciato «qualche sorpresa». Tutto fa pensare a un anticipo della riduzione dell’aliquota Ires dal 27,5 per cento al 20 per cento solo a vantaggio delle piccole e medie aziende del Sud che realizzino nuovi investimenti così da superare le possibili obiezioni della Commissione europea sugli eventuali aiuti di Stato. Copertura necessaria circa 4-500 milioni. «Vedremo», dicevano ieri laconicamente sia i tecnici dell’Economia sia quelli di Palazzo Chigi senza confermare né smentire formalmente questa ipotesi. Ma alla domanda se fosse confermata, per quanto dimezzata negli importi e più selettiva, la decontribuzione per gli assunti, la risposta è stata molto più netta: «È molto complicata. Dunque è poco probabile la conferma perché mancano le risorse». Certo è che il titolare di Via XX settembre, Pier Carlo Padoan, non spinge per una proroga dell’azzeramento dei contributi per le assunzioni a tempo indeterminato. Perché drogano il mercato del lavoro e perché hanno una funzione di stimolo in una fase di emergenza dell’economia. Secondo Padoan quella stagione si sta concludendo e ora servono misure per consolidare la ripresa. In questo senso la scelta di operare sull’Ires sarebbe coerente. Il punto è che, dopo aver deciso di abolire la Tasi sulla prima casa e l’Imu sui capannoni agricoli e i cosiddetti “imbullonati”, non ci sono ora le coperture sufficienti (servirebbero almeno 10 miliardi) per un intervento su scala nazionale sull’Ires. Ecco perché si ragiona su una platea molto ridotta: le pmi del sud che facciano investimenti innovativi. Non è però detto che sia questa la misura più adatta per rilanciare l’economia meridionale sostanzialmente ancora in recessione, visto che il taglio dell’Ires (la pagano le imprese che vanno bene) ha una natura pro-ciclica e quindi per le aziende in difficoltà sarebbe di fatto indifferente.
Repubblica – 4 ottobre 2015