Il Mef boccia il meccanismo formulato dalle Regioni che nel 2018 produrrebbe un aumento medio da 106 euro invece di 190. Lo slittamento delle nuove buste paga a regime può tradursi in una valanga di ricorsi perché fuori norma e non in linea con il resto della Pa
Il rinnovo del contratto di medici e veterinari offre per quest’anno solo poco più di metà dell’aumento a regime, mentre il resto arriverebbe solo dall’anno prossimo. Cioè dopo la scadenza del triennio contrattuale in corso di rinnovo.
Piomba una nuova tegola sul tavolo del confronto sul nuovo contratto dei 134mila dirigenti (medici, veterinari, sanitari e dirigenti infermieri) della sanità; questione non da poco, visto che da sola la sanità raccoglie i nove decimi dei dirigenti pubblici, tutti in attesa del nuovo contratto dopo che i rinnovi pre-voto si sono concentrati sul personale non dirigente. E a sollevare il problema, curiosamente, non sono i sindacati, ma la Ragioneria generale dello Stato.
La proposta elaborata dal «comitato di settore», cioè dalle Regioni che rappresentano i datori di lavoro della sanità, secondo la Ragioneria «quantifica correttamente le risorse per il rinnovo del contratto in 458,10 milioni». Cifra che, va ricordato, non rientra nella “disponibilità” delle parti ma serve a riconoscere anche ai dirigenti medici aumenti a regime pari al solito 3,48% degli stipendi medi, quindi gli stessi benefici previsti per tutto il resto del pubblico impiego. Il problema arriva però nella riga successiva. «Per il 2018 – scrive la Ragioneria – viene proposto il più ridotto importo di 261,64 milioni», vale a dire il 56% dell’aumento a regime. Tradotto nelle buste paga mensili, significa che quest’anno la firma del contratto porterebbe circa 106 euro lordi dei 190 che deriverebbero dall’applicazione normale degli aumenti decisi per gli altri comparti.
Un aumento “post-datato” rappresenterebbe però un inedito nella storia dei rinnovi contrattuali, non solo pubblici, anche perché come spiega il linguaggio sorvegliato della Ragioneria la stranezza «non è in linea con il quadro regolativo vigente». Il testo unico del pubblico impiego, infatti, chiede ai contratti di distribuire le risorse stabilite dal governo, e le manovre ovviamente assegnano i soldi negli anni coperti dal contratto. Il rinnovo post-datato, insomma, rischierebbe di portare una valanga di ricorsi anche perché «il beneficio riconosciuto per il 2018 si discosta significativamente» dagli aumenti riconosciuti agli altri dipendenti pubblici. Medici, veterinari e altri dirigenti della sanità si dovrebbero in pratica accontentare per ora del 56% dell’aumento, rinviando il resto all’anno prossimo. Nel 2019, però, inizia un altro triennio contrattuale, a cui dovrebbe pensare la prossima legge di bilancio, per cui il ritardo determinerebbe un effetto a catena difficile da gestire.
La questione è destinata a piombare come un macigno sui tavoli di confronto che già sono ostacolati dagli interrogativi sull’indennità di esclusiva. Sul punto i sindacati e i datori di lavoro, quindi le Regioni, sono d’accordo, e premono per inserire nel monte salari anche questa voce, che serve a compensare la scelta di non lavorare anche nel privato.
La ragione della pressione sindacale è ovvia: più alto è il monte salari, e più pesano gli incrementi percentuali perché cresce la base di calcolo: comprendendo anche questa indennità, secondo i conti circolati in questi giorni, il 3,48% farebbe salire l’aumento medio da 190 a 220 euro lordi al mese. Questa stessa riflessione lineare, però, alimenta anche il secco «no» pronunciato dalla Ragioneria nella stessa nota che svela l’aumento post-datato. La richiesta, scrivono i tecnici del ministero dell’Economia, farebbe crescere la spesa, determinando «il quadro finanziario di riferimento per il rinnovo del contratto» con ricadute a catena anche sui rinnovi successivi.
Scarica la nota della Ragioneria dello Stato
Gianni Trovati – Il Sole 24 Ore – 28 marzo 2018