Martedì 23 giugno la Consulta si riunirà in udienza pubblica per esaminare la questione di legittimità costituzionale del blocco del rinnovo della parte economica dei contratti nel pubblico impiego imposta dal 2010 dal Governo Berlusconi e poi mantenuta intatta sino ad oggi. La posta in gioco è alta e per il Governo sarebbe un duro colpo dopo la vicenda delle pensioni “congelate” a fine 2011 dal governo Monti. Nei giorni scorsi l’Avvocatura dello Stato ha fatto i conti di quanto costerebbe una bocciatura della norma con effetti retroattivi: ben 35 miliardi di euro a cui abbinare un effetto strutturale di 13 miliardi l’anno dal 2016. Cifre insostenibili per i fragili bilanci del Tesoro che rischierebbero di sforare i patti di stabilità europei in modo ben più grave di quanto causato dalla sentenza sulle pensioni. Cifre che sono state giudicate “paradossali” dalle categorie del pubblico impiego.
Martedì comunque l’udienza pubblica rappresenta un primo step, non definitivo. Nel dettaglio, la Corte dovrà esaminare la tenuta costituzionale delle norme che hanno congelato i contratti dei pubblici dipendenti dal 2011 al 2013 attraverso il decreto legge 78/2010, il cosiddetto “anticrisi”, e la successiva proroga del blocco per il 2014. Due le ordinanza all’attenzione della Consulta: la prima proviene dal Tribunale di Roma e ha alla base un ricorso promosso in sede civile contro Presidenza del Consiglio e Aran da una serie di sigle del pubblico impiego: Flp, Fialp, Gilda-Unams, Confedir, Cse. La seconda, del Tribunale di Ravenna, parte dal ricorso di 60 dipendenti degli uffici giudiziari di Ravenna, che insieme a Confsal-Unsa, il sindacato autonomo più rappresentativo nel comparto ministeri, hanno fatto ricorso contro il ministero della Giustizia per vedere adeguata la retribuzione.
Violazione del diritto a una retribuzione proporzionale e sufficiente, del principio di uguaglianza per l’applicazione del blocco ai soli dipendenti pubblici, e del diritto a uno stipendio corrispondente al quantità e qualità del lavoro svolto, i dubbi sollevati. Dubbi che gli avvocati delle parti esamineranno in udienza. «I dati Istat 2010-2015, che abbiamo allegato agli atti – riassume uno dei legali, l’avvocato Stefano Viti – dimostrano che gli stipendi pubblici sono fermi da 5 anni. Noi punteremo su due aspetti: la difesa del diritto violato alla contrattazione collettiva, che è un diritto costituzionale al pari dell’equilibrio di bilancio. E il fatto che si faccia gravare l’onere dovuto alla crisi del debito sovrano su una sola categoria, con pregiudizio di un principio democratico».
I giudici costituzionali ascolteranno prima la relatrice, Silvana Sciarra, lo stessa che ha firmato la incostituzionalità del blocco della perequazione delle pensioni, sentiranno l’Avvocato dello Stato e le parti che hanno presentato il ricorso alla Consulta. Nel pomeriggio ci sarà la Camera di Consiglio al termine della quale potrebbe arrivare una decisione ma non la sentenza che potrebbe arrivare solo successivamente. Il ministro per la Pubblica amministrazione Marianna Madia, giorni fa, ha mostrato una certa tranquillità ritenendo che la Consulta non boccerà la misura presa dal governo Berlusconi e prorogata negli anni seguenti dai governi Monti, Letta e dal medesimo governo Renzi, perché già in precedenza la Consulta ha giudicato legittimo il blocco dei contratti pubblici in quanto limitato nel tempo
L’ipotesi prevalente è che la Consulta dichiari inammissibili i ricorsi ma inviti il Parlamento a rimuovere il blocco dei contratti perché la misura è costituzionalmente legittima solo se ha carattere temporaneo. Non può essere prolungata in modo quasi automatico. Una sentenza di questo tipo consentirebbe al Tesoro di tirare un sospiro di sollievo ma obbligherebbe il governo a riaprire la partita dei contratti, che poi è l’obiettivo vero dei sindacati con la prossima legge di stabilità. La Consulta, infatti, è chiamata anche a valutare i «rilevanti effetti finanziari» che un’abrogazione tout court della norma produrrebbe, alla luce del nuovo articolo 81 della Costituzione, che prevede l’equilibrio di bilancio. Anche in questa ipotesi, la piu’ favorevole, il Governo dovrebbe recuperare circa 8 miliardi a regime per gli aumenti, cifre ancora non stanziate nel Def.
Pensioni Oggi e Il Secolo d’Italia – 21 giugno 2015