Il «parere di congruità» sul rimborso delle «spese legali» sostenute da un dipendente pubblico, per difendersi da un’accusa poi rivelatasi infondata, spetta all’Avvocatura dello Stato che dunque può ben decidere di ridimensionare la parcella richiesta dal legale, anche se validata dal Consiglio dell’ordine forense. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza 13681/2015, depositati rigettando il ricorso di un sottufficiale della Marina.
La vicenda
Il militare aveva chiesto il ristoro integrale dei costi affrontati per il procedimento giurisdizionale ma l’amministrazione, acquisito il parere dell’Avvocatura, ha rimborsato soltanto 13 dei 39mln di lire effettivamente spesi per la difesa. E la Corte di appello di Messina, vista «la necessità di contenimento della spesa pubblica quale criterio di contemperamento della liquidazione, posta a carico dell’erario “nei limiti del necessario”», non ha accordato rilievo al parere favorevole del Coa.
La motivazione
Un giudizio condiviso dalla Cassazione secondo cui lo Stato deve poter sempre controllare le spese da sostenere che, dunque, non possono essere rimesse ad un semplice accordo tra privati, il cliente e l’avvocato. Se infatti la ratio dell’articolo 18 del Dl 67/1997 (convertito dalla legge 135/1997) è quello di «tenere indenni i funzionari pubblici che abbiano agito in nome, per conto e nell’interesse dell’amministrazione», nel porre a carico dell’erario una spesa aggiuntiva, il Legislatore ha dovuto «contemperare le esigenze economiche dei dipendenti e quelle di limitazione degli oneri posti a carico dell’amministrazione». E siccome il debito del cliente dipende anche molto dal «soggettivo andamento impresso al rapporto professionale» (numero di consultazioni, trasferte, scritti difensivi) diventa «improponibile» trasferirlo così com’è all’amministrazione.
In questo senso si giustifica l’intervento dell’Avvocatura, la cui «posizione di autonomia» dovrebbe metterla al riparo da qualsiasi sospetto di parzialità. Nel formulare il proprio giudizio, infatti, «l’Avvocatura non può avere quale riferimento esclusivo né l’interesse del dipendente a risultare sempre e in ogni caso indenne da ogni costo difensivo, né quello dell’amministrazione a minimizzare la spesa, poiché il parere deve essere reso in termini di congruità». Per cui nella sua «discrezionalità tecnica» dovrà «valutare sia le necessità difensive del funzionario, in relazione alle accuse che gli erano state mosse ed ai presupposti, alla rilevanza e all’andamento del giudizio penale, sia la conformità della parcella presentata dal difensore alla tariffa professionale o ai compensi contemplati secondo i vigenti parametri». Ma «non deve limitarsi a prendere atto» dell’eventuale parere del Coa e tantomeno «disconoscere “singole voci”», ma deve esprimersi in modo da fornire all’amministrazione «gli strumenti per motivare comprensibilmente la eventuale riduzione rispetto alla pretesa di rimborso». Mentre il vaglio finale del giudice assicura il «necessario controllo del rispetto dei principi di affidamento, ragionevolezza e tutela effettiva dei diritti riconosciuti dalla Costituzione».
In ultimo, precisa la sentenza, il richiamo «al limite delle spese strettamente necessarie» non va inteso «pedissequamente», soprattutto dopo il venir meno del “sistema” delle tariffe forensi, «nel senso cioè di ritenere legittima solo l’applicazione dei minimi tariffari».
Il Sole 24 Ore – 7 luglio 2015