L’ultimo intervento di riforma sul lavoro, avvenuto con il Dl 76/2013 (convertito dalla legge 99/2013) ha semplificato il distacco dei lavoratori nelle reti d’impresa, stabilendo che, in questo caso, l’interesse dell’impresa distaccante – uno dei requisiti essenziali per poter usare questo strumento – sorge automaticamente, per la sola esistenza del contratto di rete, fatte salve le norme sulla mobilità del lavoratore previste dall’articolo 2103 del Codice civile.
Il requisito dell’interesse viene poi “ribaltato” dal datore di lavoro al lavoratore nel caso delle aziende in difficoltà.
Sono questi due casi particolari di applicazione del distacco: vediamo dunque come può essere utilizzata in genere questa opzione, e, in particolare, quando l’azienda è in crisi.
Come recita l’articolo 30 del decreto legislativo 276/2003, l’ipotesi del distacco (o comando) si realizza quando un datore di lavoro, per soddisfare un proprio interesse, mette temporaneamente uno o più lavoratori a disposizione di un altro soggetto per eseguire una determinata attività lavorativa. Il datore di lavoro distaccante rimane responsabile del trattamento economico e normativo (ma anche previdenziale e contributivo) del lavoratore.
L’interesse
Il primo, fondamentale, requisito è costituito dall’interesse, che è proprio del datore di lavoro distaccante: in caso di controversie, sarà il datore a dover dimostrare la sussistenza di un interesse imprenditoriale, legato allo svolgimento di specifici compiti, e che non deve consistere – almeno nella generalità dei casi ed eccettuate le imprese in crisi – nel mero risparmio del costo del lavoro o, addirittura in un profitto (come nel caso in cui siano messe a carico del distaccatario somme maggiori del costo del dipendente distaccato, oneri contributivi inclusi).
La temporaneità
A differenza di quanto avviene nel caso del trasferimento, che è un provvedimento con il quale si dispone il definitivo cambiamento della sede di lavoro, il distacco deve avere natura temporanea. Il ministero del Lavoro, nella circolare 3 del 15 gennaio 2004, ha precisato che il concetto di temporaneità coincide con quello di non definitività, indipendentemente dalla durata del periodo di distacco, purché questa durata sia funzionale alla persistenza dell’interesse del distaccante.
Attività di lavoro
Il terzo requisito consiste nello svolgimento di un’attività lavorativa «determinata». È necessario, quindi, che il lavoratore sia destinato pro tempore presso un altro soggetto con l’esatta indicazione delle mansioni da svolgere, il cui assolvimento soddisfa l’interesse del proprio datore di lavoro.
A questo proposito, bisogna evidenziare che il potere gerarchico e disciplinare rimane in capo al datore di lavoro, che potrà quindi, in ogni momento, revocare il distacco e ordinare al lavoratore di rientrare nell’unità produttiva di appartenenza.
Il distaccatario (ovvero il soggetto presso cui è distaccato il lavoratore), invece, assume su di sé la parte del potere direttivo che riguarda le concrete modalità di svolgimento delle mansioni, l’uso di particolari indumenti o attrezzature, l’orario di lavoro e così via.
Mansioni e distanza
Il distacco che comporta un cambiamento di mansioni deve avvenire con il consenso del lavoratore interessato (come dispone l’articolo 30, comma 3, del Dlgs 276/2003). Questa è un’eccezione alle regole generali, perché, se non c’è cambio di mansioni, il distacco è disposto in virtù dei poteri che il dipendente attribuisce al datore di lavoro con la sottoscrizione del contratto di lavoro, e il consenso del dipendente non è affatto necessario.
Invece, nel caso in cui il comando comporti il trasferimento (ossia lo spostamento) presso un’unità produttiva situata a più di 50 chilometri da quella in cui il lavoratore è impiegato, il distacco può avvenire soltanto per comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive. È una previsione poco chiara, posto che il normale interesse produttivo potrebbe già soddisfare questi requisiti. Quel che probabilmente il legislatore ha inteso prevedere è la presenza di un interesse rafforzato, saldamente dimostrabile, tale da giustificare il disagio subito dal lavoratore, tanto maggiore quanto più lunga è la distanza dalla sede abituale di lavoro, e non (si badi bene) dalla propria abitazione.
Ovviamente, le due situazioni sopra descritte possono anche sovrapporsi e, quindi, se il distacco comporta il mutamento di mansioni e l’assegnazione a una sede che dista oltre 50 chilometri, sarà necessario sia il consenso del lavoratore (che può essere prestato anche tacitamente, non opponendosi al provvedimento), sia le comprovate ragioni tecniche, organizzative, produttive o sostitutive.
Il Sole 24 Ore – 6 gennaio 2014