Dl lavoro. Spazio alla proroga dei contratti a tempo senza «causale». Stop and go con intervalli ridotti a 10 o 20 giorni
Mini flessibilità sul contratto a tempo determinato, ma anche qualche irrigidimento in più: questa è la sintesi che emerge dopo l’ulteriore intervento del legislatore contenuto nel decreto legge Iva-lavoro n. 76/2013 (la legge di conversione, varata dal Parlamento, è attesa in settimana in «Gazzetta Ufficiale»). Sulla possibilità di stipulare un contratto privo di causale si registra una minima apertura da parte del legislatore, dal momento che – pur in assenza di un ripensamento generale della disciplina – vengono previste sostanzialmente due ipotesi di esenzione: 1) primo rapporto instaurato tra le stesse parti, di durata non superiore a 12 mesi (compresa eventuale proroga), fermo restando che per «primo rapporto» ci si riferisce sia al contratto di lavoro subordinato sia alla prima missione nell’ambito della somministrazione di lavoro; 2) eventuali altre ipotesi previste dalla contrattazione collettiva, anche aziendale.
In altri termini, da un lato si liberalizza per legge l’utilizzo del contratto a termine di durata non superiore a 12 mesi, dall’altro lato è concessa una delega ampia alla contrattazione collettiva (anche aziendale) di disporre in fase di negoziazione maggiori margini di utilizzo; ma serve, per l’appunto, una previsione contrattuale.
La maggiore apertura di impatto immediato, però, riguarda la proroga. L’impossibilità di prorogare il contratto senza causale, infatti, era stata denunciata come elemento di eccessiva rigidità dagli addetti ai lavori: ora la proroga potrà avvenire, per una sola volta, nel rispetto del limite massimo di durata del contratto a termine acausale di 12 mesi.
Resta qualche dubbio sul fatto che l’istituto della proroga per i contratti acasusali è ora disciplinato dall’articolo 4 del Dlgs 368/2001, riferito ai contratti a termine in genere, che richiede la sussistenza di ragioni oggettive. Tuttavia è ragionevole ritenere che per i contratti acausali non abbia senso pretendere una «ragione oggettiva» per la proroga, laddove il contratto stesso sia stato avviato senza indicare una specifica motivazione.
La nuova rigidità, invece, è rappresentata dalla modifica che prevede l’estensione dei limiti quantitativi previsti dai contratti collettivi nazionali di lavoro (Ccnl) anche ai contratti a termine privi di causale. Quindi, le aziende non potranno avviare contratti privi di causale se sono stati raggiunti i limiti quantitativi fissati dai Ccnl.
La prosecuzione di fatto
È stato abolito l’obbligo di comunicare al Centro per l’impiego competente – entro la scadenza del termine inizialmente fissato – la prosecuzione del rapporto e la durata della prosecuzione stessa.
È stato specificato, inoltre, che l’utilizzo del contratto acausale oltre i termini previ7 Nei contratti a tempo determinato, l’obbligo di indicare la causale consiste nella necessità di precisare le ragioni di carattere tecnico, organizzativo, produttivo o sostitutivo che rendono indispensabile l’apposizione del termine. La riforma Fornero permetteva di non indicare la causale solo a queste condizioni: nel caso del primo contratto di lavoro, della durata massima di 12 mesi, e con divieto di proroghe. Il Dl 76, invece, ha rimosso il divieto di proroga, aprendo quindi la possibilità prolungare tutti i contratti che non hanno ancora raggiunto il limite. sti dalla norma (oltre il trentesimo giorno in caso di contratto di durata inferiore a sei mesi, oppure oltre il cinquantesimo giorno negli altri casi), implica la conversione del rapporto a tempo indeterminato alla scadenza di questi termini.
Alla luce della modifica introdotta, che incide soltanto sulla «trasformazione» del rapporto, resta ora il dubbio se l’utilizzo della prestazione oltre i termini fissati, conduca – anche sotto l’ipotesi del contratto privo di causale – alla necessità di riconoscere le relative maggiorazioni retributive (20% fino al decimo giorno successivo e 40% dall’undicesimo giorno).
Intervalli tra contratti
Sul fronte degli intervalli temporali tra un contratto a tempo determinato e l’altro, si registra un completo dietro-front del legislatore, che nei fatti ripristina la normativa precedente alla riforma Fornero (si veda anche l’articolo a destra). Allo stato attuale, pertanto, gli intervalli temporali dovranno avere la seguente durata: 1 10 giorni dalla data di scadenza di un contratto fino a sei mesi; 1 20 giorni dalla scadenza di un contratto superiore a sei mesi.
Il mancato rispetto dei termini indicati comporta la conversione del secondo contratto a tempo indeterminato.
Lavoratori in mobilità
Sono esclusi dal campo di applicazione del Dlgs 368/2001 i contratti a tempo determinato per lavoratori in mobilità disciplinati all’articolo 8, comma 2, della legge n. 223/1991, che dunque non sono soggetti – tra l’altro – all’obbligo di causale.
Restano tuttavia applicabili le disposizioni dettate dal Dlgs 368 contenute negli articoli 6 (Principio di non discriminazione) e 8 (Criteri di computo ai fini dell’applicazione della legge 300/1970, secondo il quale i contratti a termine sono computabili se di durata superiore a nove mesi). L’applicazione di questi due articoli è stata prevista a seguito delle modifiche apportate dal Senato e quindi trova applicazione a partire dalla data di conversione in legge del provvedimento.
Casi di utilizzo più ampi, basta il contratto aziendale
Il ruolo della contrattazione collettiva nella disciplina del contratto a termine diviene sempre più centrale, alla luce delle sempre maggiori ipotesi in cui il legislatore decide di “delegare” la relativa regolamentazione.
Con il Dl 76/2013, la contrattazione collettiva – anche aziendale – è chiamata a disciplinare ulteriori aspetti sia sul fronte del contratto a termine privo di causale sia sul fronte degli intervalli temporali tra i diversi contratti. Vediamoli con ordine. 1 Contratto senza causale. La stipula di un contratto a termine senza causale può oggi avvenire sia nel caso di «primo rapporto» (con durata, compresa proroga, fino a 12 mesi), sia in ogni altra ipotesi individuata dalla contrattazione collettiva, anche aziendale. La contrattazione collettiva, di qualsiasi livello, può intervenire, pertanto, nella definizione delle situazioni che consentono alle imprese di non apporre la causale al contratto a termine.
L’espressione «ogni altra ipotesi» utilizzata dal legislatore si pone in contrapposizione con il riferimento all’ipotesi «del primo rapporto a tempo determinato» necessario per avviare un rapporto a-causale. Questo consente di affermare che la contrattazione collettiva potrà individuare delle ipotesi in cui il contratto privo di causale possa essere utilizzato anche nei casi in cui non si tratti del «primo» rapporto tra azienda e lavoratore, delineando uno scenario organizzativo molto più vicino alle esigenze aziendali.
In precedenza l’interessamento delle parti sindacali era molto più difficoltoso (poiché richiedeva un intervento dei contratti nazionali, in via diretta o in via interconfederale, oppure – su espressa delega – dei contratti decentrati) e limitato alle assunzioni nell’ambito di specifici processi organizzativi e nel rispetto, comunque, del vincolo del 6% del totale dei lavoratori dell’unità produttiva.
Inoltre, il tenore letterale della norma sembrerebbe consentire che la contrattazione collettiva possa definire anche un diverso periodo di durata massima dei contratti acausali 1 Intervalli temporali tra contratti. I nuovi limiti temporali di intervallo tra un contratto a termine e il successivo sono fissati in 10 o 20 giorni (a seconda che la durata del contratto sia fino a sei mesi o superiore a questa soglia).
Anche in questa materia l’intervento della contrattazione collettiva di qualsiasi livello assume un forte rilievo. Infatti possono essere introdotte le ipotesi in cui il vincolo temporale non debba essere applicato. Non si tratta pertanto della possibilità di ridurre ulteriormente i periodi di intervallo, ma di disciplinare le fattispecie in cui l’intervallo stesso non è richiesto.
Al fine di non andare in contraddizione con la previsione dell’articolo 5, comma 4, del Dlgs 368/2001 (riguardante le assunzioni con più contratti a termine senza soluzione di continuità cui fa seguito la conversione a tempo indeterminato fin dal primo rapporto), è stato disposto che tale ultima norma non possa trovare applicazione nelle ipotesi in cui la contrattazione collettiva indichi le ipotesi di non applicazione degli intervalli temporali.
Stop and go con intervalli ridotti a 10 o 20 giorni
Stop and go, confermato il ritorno al passato. La legge di conversione del decreto legge 76/2013, infatti, nel testo approvato dal Senato, conferma la riduzione delle pause previste dal provvedimento in vigore dal 28 giugno scorso.
Il termine per la stipula di un nuovo contratto a termine rimane così di 10 giorni se il contratto originario ha una durata fino a sei mesi, oppure di 20 giorni se la durata è superiore così come ha previsto l’articolo 7, comma 1, del Dl 76.
La disciplina precedente
La regolamentazione degli intervalli temporali è stata piuttosto travagliata nell’ultimo anno, in quanto si sono susseguite diverse modifiche che hanno fornito un quadro contrassegnato da una eccessiva rigidità, ma anche da una buona dose di incertezza.
Rigido perché la legge 92/2012, a far data dal 18 luglio 2012, aveva aumentato fino a sei volte rispetto alle previsioni precedenti l’intervallo temporale da rispettare. In particolare, la pausa tra la fine del precedente contratto e quello nuovo doveva essere, rispettivamente, di 60 giorni per i contratti scaduti con una durata fino a sei mesi e 90 giorni per quelli di durata maggiore.
Accanto a questa regola, erano state previste alcune ipotesi che consentivano una riduzione dei tempi di attesa per la stipulazione di un nuovo rapporto a termine, rispettivamente a 20 o 30 giorni. In particolare, i termini erano ridotti nei casi seguenti: 1 per l’assunzione a termine effettuata nell’ambito di particolari processi organizzativi, fermo restando che tale possibilità doveva essere disciplinata dai contratti collettivi; 1 per le attività stagionali previste dal Dpr 7 ottobre 1963, n. 1525 e per quelle individuate dagli avvisi comuni e dai contratti collettivi nazionali; 1 in ogni altro caso previsto dai contratti collettivi.
Possibilità, queste ultime due, introdotte a distanza di un mese dall’entrata in vigore della riforma Fornero dall’articolo 46-bis, comma 1, della legge 134/2012.
Riassumendo, quindi, pause di regola di almeno 60 o 90 giorni, ridotte a 20 o 30 giorni rientrando nelle eccezioni previste.
Questa la disciplina vigente fino al 27 giugno 2013, sostituita – dal giorno seguente – dai nuovi limiti minimi di 10 e 20 giorni indicati in precedenza.
I nuovi limiti temporali
Oltre alla riduzione dei termini, con il Dl 76 viene modificato il sistema della “eccezioni” ai termini minimi. Da un lato vengono eliminate le ipotesi di riduzione dei periodi minimi, mentre dall’altro vengono introdotti alcuni casi nei quali è possibile stipulare nuovi contratti senza alcuna pausa tra un rapporto e l’altro.
La legge di conversione del Dl 76/2013 contiene, infatti, una ulteriore precisazione rispetto alla versione originaria del decreto, e prevede che le esclusioni degli intervalli temporali previste operano anche nelle ipotesi in cui si tratta di due assunzioni successive a termine, intendendosi per tali quelle effettuate senza alcuna soluzione di continuità.
La disciplina degli intervalli non si applica: 1 per i lavoratori impegnati nelle attività stagionali; 1 in ogni altro caso previsto dai contratti collettivi stipulati ad ogni livello dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.
Il Sole 24 Ore – 19 agosto 2013