Il braccio di ferro tra Stato e Regioni sulle competenze legislative ha registrato di nuovo un balzo in avanti: l’anno scorso davanti alla Corte costituzionale sono arrivati 110 ricorsi, contro i 93 del 2014. Dovrebbe essere, però, l’ultimo atto di un contenzioso che va avanti da 15 anni. Tutto dipenderà dall’esito del referendum d’autunno sulla riforma costituzionale, che segna la fine del bicameralismo perfetto e rivede il Titolo V della Carta, ridistribuendo le competenze legislative tra Stato e Regioni
L’attuale riparto – nato nel 2001 con la legge n. 3, ispirata dalle spinte federaliste – ha infatti procurato un bel po’ di lavoro alla Consulta, chiamata in tutti questi anni a segnare i confini delle materie su cui avrebbe dovuto legiferare Roma rispetto a quelle ascrivibili alle amministrazioni regionali. I ricorsi sulla legittimità delle norme non sono mai venuti meno: ci sono stati i picchi del 2011 e 2012, con, rispettivamente, 180 e 206 cause presentate davanti alla Corte, ma le liti si sono mantenute, mediamente, sul centinaio e più l’anno e solo nel 2007 si sono ridotte a 53.
Ad alimentare il contenzioso è stato il sistema costruito nel 2001, che ha previsto una serie di materie sulle quali il potere legislativo è riservato in via esclusiva allo Stato (per esempio: politica estera, previdenza, giustizia, ordine pubblico, difesa) e altre di competenza concorrente, sulle quali possono intervenire sia il centro sia la periferia: il primo fissa le regole di carattere generale, mentre le autonomie disciplinano le norme di dettaglio. È il caso, per esempio, di istruzione, tutela della salute, governo del territorio, energia e trasporti. C’è, infine, uno spazio residuale riservato alle Regioni, le quali hanno la competenza sulle materie non riservate in via esclusiva allo Stato.
Questo quadro dai confini incerti ha innescato numerosi ricorsi da una parte e dall’altra: lo Stato lamentava l’ingerenza delle norme regionali in ambiti di propria competenza e le autonomie hanno fatto altrettanto rispetto alle leggi nazionali.
L’impatto del contenzioso nato dopo la prima riforma del Titolo V lo si capisce bene dal peso, sul totale delle decisioni di legittimità costituzionale, dei giudizi in via incidentale – quelli generati di solito da un ricorso presentato alla Consulta da un giudice nel corso di un processo – e di quelli in via principale, consentiti solo allo Stato e alle Regioni, che possono rivolgersi direttamente alla Corte. Nel 2001 i giudizi in via principale rappresentavano, su un totale di 447 decisioni di legittimità costituzionale, il 7,6%, nel 2004 il 21%, nel 2010 il 37%, nel 2012 il 47 per cento.
È stata soprattutto Roma a chiamare in causa i giudici della Consulta: lo ha fatto 930 volte, contro le 667 delle Regioni. A fronte di questa mole di ricorsi, sono state prodotte 1.899 sentenze: 850 sulle cause intentate da Roma e 1.049 (a uno stesso ricorso possono corrispondere più verdetti) per rispondere alle liti provocate dalle amministrazioni regionali.
A essere censurate dalla Consulta sono state soprattutto le norme messe a punto da Roma: le sentenze di illegittimità relative ai ricorsi sollevati dai governatori sono state 506, contro le 490 relative alle cause presentate da Roma.
La Regione che più volte ha condotto lo Stato davanti alla Corte è stata la Toscana, che ha presentato 82 ricorsi (che hanno dato origine a 127 sentenze, di cui 64 di illegittimità), seguita dalla provincia autonoma di Trento (64 cause, con 75 verdetti, 33 dei quali di illegittimità) e dal Veneto (51 ricorsi, 108 sentenze, di cui 41 di illegittimità).
Il Veneto si è trovato spesso anche sul “banco degli imputati”, perché è stato chiamato 52 volte dal Governo a rendere conto di “sconfinamenti” nelle materie di competenza statale, contenzioso che ha generato 46 sentenze, di cui 26 di illegittimità. È, però, soprattutto con l’Abruzzo che Roma ha avuto da ridire, visto che ha presentato 84 ricorsi, con 73 sentenze, di cui 48 di legittimità. Al secondo posto la Puglia, che si è dovuta difendere davanti alla Consulta 62 volte, ma in 36 casi (su 57 verdetti) ha dovuto soccombere.
Contenuta, invece, la conflittualità del Trentino nei confronti dello Stato (solo 6 ricorsi, con altrettante sentenze, di cui 4 di illegittimità) e quella di Roma nei confronti del Molise (5 ricorsi, 6 sentenze, di cui 5 di illegittimità).
l nuovo Titolo V. Il maggior motivo di contrasto. Il nodo inestricabile della «concorrenza»
Nella nuova geografia delle materie affidate al legislatore nazionale o a quello regionale, è soprattutto il primo ad estendere i propri confini. L’assetto del Titolo V disegnato dalla riforma costituzionale amplia, infatti, gli ambiti di competenza esclusiva dello Stato, elimina la competenza concorrente e introduce la cosiddetta “clausola di supremazia”, che permette al Governo di intervenire in materie non riservate alla legislazione esclusiva statale qualora lo impongano la tutela dell’unità giuridica o economica della Repubblica oppure quella dell’interesse nazionale.
Per quanto riguarda gli spazi di intervento riservati al Governo, questi aumentano, annettendo materie come l’energia, le infrastrutture, la tutela e sicurezza del lavoro, il commercio con l’estero, l’ordinamento delle professioni e delle comunicazioni, che prima rientravano nella competenza concorrente.
È, però, soprattutto l’eliminazione di quest’ultima ad assumere un peso significativo, quanto meno ai fini del contenzioso davanti alla Corte. La competenza concorrente fra Stato e Regioni – che riservava il potere legislativo ai governatori, salvo l’intervento di Roma sui principi fondamentali – è stata, infatti, quella che, alla prova dei fatti, ha mostrato problemi interpretativi e ha maggiormente impegnato i giudici costituzionali. Per esempio, declinare in concreto la nozione di “principio fondamentale” non è stato per nulla pacifico. Come hanno evidenziato i giudici della Consulta, il concetto di “principio fondamentale” «non ha e non può avere caratteri di rigidità e universalità, perché le “materie” hanno diversi livelli di definizione che possono mutare nel tempo». Di conseguenza – è sempre la Corte a parlare – «l’ampiezza e l’area di operatività dei principi fondamentali (…) non possono essere individuate in modo aprioristico e valido per ogni possibile tipologia di disciplina normativa». Il lavoro dei giudici è stato, dunque, anche quello di definire volta per volta se, all’interno della competenza concorrente, il raggio d’azione dello Stato sui principi fondamentali fosse rispettato o se si eccedesse. E viceversa, se le Regioni si spingessero oltre le norme di dettaglio.
Con la soppressione della competenza concorrente, la nuova riforma fa rientrare molte materie nell’area di manovra esclusiva dello Stato. Allo stesso tempo – pur conservando la clausola residuale generale, in base alla quale spetta alle Regioni la competenza nelle materie non riservate in maniera esclusiva allo Stato – la riforma individua specifici ambiti di intervento regionale.
Altra conseguenza della cancellazione della competenza concorrente è la ridefinizione del potere regolamentare. Attualmente, quest’ultimo è attribuita allo Stato nelle materie di competenza esclusiva, mentre è riservato ai governatori negli ambiti di competenza concorrente e in quelli di attribuzione residuale. La riforma, invece, ripartisce il potere regolamentare tra Stato e Regioni sulla base delle rispettive competenze legislative. Anche in questo caso, dunque, ne viene fuori un rafforzamento della potestà statale, conseguenza dell’ampliamento delle materie riservate alla competenza esclusiva di Roma. Non solo, lo Stato acquisisce la potestà regolamentare anche nelle materie dove la propria competenza è attenuata, dove cioè deve limitarsi alle disposizioni generali e comuni, come l’ordinamento scolastico.
Il Sole 24 Ore – 29 agosto 2016