Fabio Martini. Nell’angusta sala stampa di Palazzo Chigi, Matteo Renzi parla ininterrottamente per 20 minuti e alla fine compie un’impresa che in venti anni di Seconda Repubblica non era riuscita a nessuno: tra vecchi annunci, neo-annunci e provvedimenti quasi operativi il presidente del Consiglio è riuscito ad occupare tutti gli spazi politici e sociali. Proprio tutti. Quello della «giustizia sociale» – come la chiama lui – gratificando i poco abbienti e stigmatizzando i mega-stipendi.
Quello della sinistra classica, proclamando che «da adesso inizia a pagare chi non ha mai pagato». Quello dell’elettorato indignato e grillino, annunciando a sorpresa «la tassazione delle banche». Quello della «serietà», sostenendo che la previsione di una crescita per il 2014 dello 0,8% inserita nel Def è più affidabile dell’’1,1% promesso dal governo di Enrico Letta. Quello della destra anti-statalista, declamando la mission di «uno Stato più leggero», a cominciare dagli stipendi dei suoi dirigenti. Ma anche per le imprese – come si sa – non mancheranno le gratificazioni, grazie agli sgravi Irap, al pagamento degli arretrati della Pa e naturalmente grazie ai contratti a termine. E per lavoratori dipendenti dai redditi medio-bassi, un nuovo slogan: «Gli daremo la quattordicesima».
Dopo quarantacinque giorni fitti di annunci, il presidente del Consiglio era chiamato alla prova dei fatti. Prova specialmente impegnativa per Renzi, visto che lui sulle promesse a raffica si sta giocando la faccia. Al termine di una breve e tranquilla riunione del Consiglio dei ministri per l’approvazione del Def, si è presentato in sala stampa un Renzi in «palla», meno spettacolare rispetto allo show delle slide, ma molto più incisivo. L’incipit è eloquente. Il premier, in un completo grigio ferro «macchiato» da una cravatta viola, si appare decisamente rilassato e butta lì una battuta scherzosa, etichettando come «noto laziale» il ministro Padoan, che invece è un romanista sfegatato. Venti minuti più tardi, quando Renzi gli darà finalmente la parola, il serioso Padoan spiazza tutti, esordendo anche lui con una battuta calcistica: «Il presidente del Consiglio sa che ho in tasca la lettera di dimissioni se continua a provocarmi sul terreno calcistico…».
Certo, un semplice scambio di frizzi, ma anche l’ultimo segnale di una dinamica per nulla scontata: in un governo guidato da un solista accentratore, i personaggi di maggior peso remano nella stessa direzione. Come ha confermato, dietro le quinte, la preparazione del Def, l’impegnativo documento che il presidente del Consiglio ha condiviso con altri tre personaggi: ovviamente il ministro Padoan, il viceministro Enrico Morando e il «sottosegretario a tutto» Graziano Delrio.
Significative a questo riguardo le parole di un uomo misurato come Padoan, che riferendosi alla coesione tra i ministri, dice che questa è «la ragione per cui il governo avrà successo».
Per il resto è stato Renzi a tenere la scena. Sugli sgravi Irpef il presidente del Consiglio ha comunicato le coperture a fette grosse, senza ancora entrare nei dettagli perché si sta ancora lavorando di lima, immaginando di trovare qualche risorsa anche per gli incapienti. Ma al di là degli annunci, il filo rosso delle sue parole è stato una volta ancora quello che porta alle elezioni Europee del 25 maggio. Con battutine agrodolci riservate in particolare ai Cinque stelle: «Mi sorprendono, avevo capito che erano nati per altro e non per difendere le province o l’indennità dei senatori». E sempre con l’idea di recuperare voti di protesta, un nuovo affondo, stavolta nei confronti delle figure apicali delle istituzioni: «Spero che anche gli organi costituzionali, pur nella loro autonomia, accettino il principio della equiparazione» dei loro emolumenti a quello del Presidente della Repubblica.
La stampa – 9 aprile 2014