Controlli rafforzati negli aeroporti e depliant informativi. L’Italia alza le difese contro Ebola: il vertice interministeriale di ieri a palazzo Chigi ha varato l’aumento del personale sanitario e il rafforzamento dei controlli nei porti e negli aeroporti, mentre da oggi saranno distribuiti depliant in italiano e in inglese per informare i viaggiatori in partenza e in arrivo sui comportamenti da tenere prima, durante e dopo il viaggio.
Mentre i sindaci del Nordest cavalcano la paura varando ordinanze per «vietare la dimora, anche occasionalmente, alle persone provenienti da Paesi dell’area africana, se non in possesso di certificato attestante lo stato di salute» (Massimo Bitonci, Padova); chiedendo controlli sanitari a tappeto (Andrea Sala, Vigevano) o imponendo 21 giorni di isolamento per i soldati americani in rientro nelle basi italiane dalla Liberia (Achille Variati, Vicenza); oggi a Bruxelles i ministri della Salute europei rincorreranno il miraggio di una politica europea comune e coordinata.
Ieri Matteo Renzi ha partecipato a una videoconferenza con Angela Merkel, David Cameron, François Hollande e il presidente Usa Barack Obama, che ha chiesto ai colleghi europei un «maggiore impegno» per combattere il virus. La volontà di trovare una linea di azione comune è sempre più evidente, ma intanto si apre il portafogli: l’Italia, avverte Renzi, ha deciso un «impegno addizionale» di 50 milioni, «accogliendo l’invito dell’Onu». Il Regno Unito e ora anche la Francia, che hanno voli diretti con i tre Paesi in cui il virus è fuori controllo — Liberia, Guinea e Sierra Leone — effettueranno lo screening negli aeroporti. L’Italia non ha voli diretti ma può essere raggiunta con una triangolazione: per questo il ministro della Salute Beatrice Lorenzin punta sulla «tracciabilità dei viaggiatori», un sistema cioè in grado di risalire immediatamente alla regione di provenienza al di là dei transiti.
Una via complicata, però, che richiede l’avallo delle autorità aeroportuali come l’Enac e delle compagnie aeree, e l’adeguamento delle procedure. Per certo, invece, la linea prevalente nella Ue — appoggiata anche dal nostro governo — è agire direttamente nei Paesi africani colpiti, rafforzando i controlli in uscita. L’idea è inviare una task-force consistente per consegnare aiuti umanitari, assistendo e sfamando tribù isolate dal virus e dalla paura; realizzare strutture sanitarie e potenziare la presenza di medici e personale per lo screening nei porti e negli aeroporti. Si pensa, per esempio, di incentivare gli specialisti disponibili a partire, e di rendere più semplici le procedure per i volontari.
Intanto, per valutare immediatamente i casi sospetti e minimizzare il rischio di un successivo contagio l’Italia aumenta gli specialisti, attualmente 80, dislocati negli uffici portuali e aeroportuali: e mette a disposizione due aerei C-130 per il rientro in sicurezza di eventuali connazionali ammalati, come gli eroi in camice bianco che stanno rischiando la vita per contenere l’epidemia nell’Africa occidentale.
Dallas, un’altra infermiera contagiata “È stata in aereo con 130 persone”
Una seconda infermiera contagiata, un aereo con 132 passeggeri a rischio, il presidente degli Stati Uniti che annulla d’urgenza un suo viaggio. Ebola adesso fa paura e l’America fa i conti con nuovi allarmi, protocolli poco funzionanti, accuse e contraccuse, polemiche e qualche bugia: e una nuova speranza che arriva dal sangue “infetto” di chi è sopravvissuto.
Amber Vinson, 29 anni, faceva parte del team di medici e infermieri che si era occupato di Thomas Duncan, il paziente zero morto a Dallas una settimana fa. Anche lei, come la sua collega Nina Pham, aveva seguito il protocollo previsto dal Presbyterian Hospital (come da tutti gli altri ospedali Usa), usando con attenzione mascherine, guanti e tutto il necessario. Anche per lei qualcosa non ha funzionato. Con una pericolosa aggravante: il giorno prima di accusare i sintomi e di essere sottoposta ai test (che hanno rivelato il contagio) Amber aveva viaggiato da Cleveland (Ohio) fino a Dallas/ Fort Worth (il terzo aeroporto al mondo per numero di passeggeri) in compagnia di altre 132 persone più i membri dell’equipaggio, tutti oggi a rischio contagio.
Non appena ha avuto la notizia Barack Obama ha annullato il viaggio (per raccolta fondi elettorali) in New Jersey e Connecticut, ha convocato una riunione d’urgenza alla Casa Bianca e ha poi affrontato il problema del virus in arrivo dall’Africa occidentale anche nella conference- call con i leader europei (Renzi, Merkel, Cameron, Hollande) che aveva come tema centrale la guerra allo Stato Islamico. Il presidente ha invitato i leader europei a fare di più per combattere la diffusione del virus. «La situazione è seria», dice il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest spiegando il rinvio del viaggio elettorale, e Obama «vuole assicurarsi che tutte le risorse necessarie del governo federale siano impegnate sul campo ». Restano al loro posto (per il momento) tutti i responsabili che hanno gestito finora l’allarme Ebola con risultati decisamente alterni. «Non doveva prendere quell’aereo », dice adesso Thomas Frieden (responsabile del Cdc, il centro che supervisiona tutto, sotto accusa per la «lenta risposta » agli allarmi) senza spiegare però chi e come doveva controllare. Come prima mossa è stato deciso di trasportare Amber Vinson all’Emory University Hospital di Atlanta, uno dei quattro grandi centri ospedalieri degli Stati Uniti meglio attrezzati (grazie ad unità di isolamento specializzate) per curare i malati di Ebola. È lì che sono stati curati con successo Kent Brantly (il medico missionario americano che aveva contratto la malattia in Liberia) e Nancy Writebol (infermiera-missionaria).
Dall’Emory e dal sangue del dottor Brantly arrivano le maggiori speranze per salvare le due infermiere contagiate. Tre sacche di plasma del medico-missionario (che a sua volta prima di partire dalla Liberia aveva fatto una trasfusione con sangue di un adolescente malato-guarito) sono state usate per malati di Ebola. E l’ultima conferma che questo tipo di trasfusioni siano al momento l’unico “vaccino” disponibile, arriva proprio da Nina Pham, cui sono state fatte trasfusioni del sangue di Brantly. La prima infermiera contagiata «sta migliorando», anche la seconda verrà adesso “trattata” con il sangue del medico.
In difesa delle due infermiere, un po’ troppo frettolosamente accusate di negligenza dai vertici sanitari, arriva un comunicato di National Nurse United il sindacato delle infermiere che accusa a sua volta: «All’ospedale di Dallas mancava un protocollo vero e anche i mezzi. Duncan è stato lasciato per ore in un’area con altri pazienti e le infermiere si sono dovute arrangiare coprendosi parti del corpo con dei normali cerotti».
Repubblica – 16 ottobre 2014